Macchine da musica | prima parte

Il progetto come opera d'arte e sfida intellettuale
03.08.2011


Laguna Seca, luglio 2011, il sogno di una moto italiana campione del mondo guidata dal pilota italiano campione per eccellenza sembra perdersi nella sabbia. Chi sta però soffrendo per le attuali sorti della Ducati, dell’uomo Rossi e del motorismo italiano in genere, può tirare un sospiro di sollievo. I motori li fanno gli uomini. E di uomini in questa storia ce ne sono. E si faranno valere.

Facciamo un passo indietro. Montmeló, Barcellona, 15 giugno 2003. L’urlo è “Loris, Loris!” Il commento è “troppo felice, sono troppo felice!”. E non sai se è sudore o pianto quello sul viso di Corrado Cecchinelli, Direttore Tecnico del Ducati MotoGP Team. Aggiunge che “un tecnico non dovrebbe mai piangere, ma…”. E perché mai non piangere, quando in un motore (da corsa, poi) ci vanno più sangue, passione, lavoro, studio e lacrime che olio, benzina e leghe speciali. Quando nel villaggio globale la notizia corre, quella di un italiano che aveva rivinto su una moto italiana rossa, per di più, la parola “italiano” torna ad avere senso.

Eroe piccolo, solo uno e sessantacinque, il Loris Capirossi. E non sta con i forti della Honda. Valentino ha sbagliato, ma c’è stato costretto. Capirossi guida come il suo nome dice, come un capo pellerossa, come un demonio. Non è elegante né pulito, ma fa ballare una belva da 328 all’ora a ogni curva. Ventisette anni prima passano in un attimo. Era Agostini. Era una MV Agusta. Ora è Loris con la Desmosedici. Gli Italiani sono tornati.

Ma perché tornati? In fondo il paddock era ed è pieno di italiani. Max Biaggi, Valentino Rossi, Melandri e tanti altri. Sarà mica che a quelli dall’altra parte del giornale, del televisore o del computer questo non basti? Ce lo dicono da sempre, per via della Ferrari. Noi si tifa per le macchine, non per i piloti. Quasi italiano Schumacher, che non spiccicava che quattro parole da fare pena, ma di titoli ne ha portati a casa complessivamente sette. Due con una macchina di Treviso e cinque con una di Maranello. All’epoca dei suoi successi in Ferrari per tutti era diventato italianissimo. Più di Trulli su una francese o di Fisichella su un’inglese.

E così l’incomprensione aumenta tra quelli che di macchine “ne capiscono” e tutti gli altri. Agli altri, questo dei motori non sembra sport. Al massimo è gente che va in macchina e le macchine non sono tutte uguali, quasi che in questa storia ci fosse un trucco. Sì, c’è, ed è facile a vedersi. Lewis e Bolt hanno muscoli guizzanti, corrono e sanno che gli occhi del mondo si riempiranno d’ammirazione a vederli. Ci sono nati con quei muscoli. E poi ci hanno lavorato su. Così tanto che non ci si crederebbe. La ricetta è nota: talento e sacrificio come ingredienti base. Si chiama sport: l’epica dei tempi nostri. Lotte tra titani ed eroi: magari d’un giorno solo.

Qui sta la notizia: con i motori la ricetta è la stessa. Gli italiani sono tornati e torneranno perché il signore che ha disegnato il motore Desmosedici si chiama Filippo Preziosi (fig. 1). E il talento per questo l’ha nel sangue, c’è nato, e poi ci ha lavorato su, tanto che non ci si crederebbe. Il fatto è che il talento del progetto è “astratto”, ha bisogno di reti neuronali estreme, talentuose e ben allenate, assai più che di fasci muscolari guizzanti. Direttore Tecnico Ducati Corse dal 1999, nel 2000 un incidente di moto in Africa toglie a Preziosi l'uso delle gambe e lo costringe su una sedia a rotelle. Come Stephen Hawking, che in una sedia a rotelle ha occupato la cattedra di fisica che fu di Newton. O, a suo tempo, come Franklin Delano Roosevelt, che da una sedia a rotelle parlava come Presidente degli Stati Uniti. Ecco perché, quando sul sito della Ducati a Filippo chiesero qual era l’arma segreta del Desmosedici, lui poté rispondere “le persone che l’hanno disegnato”. Gli sport motoristici sono “sport”: ci vedi gareggiare piloti e cervelli di ingegneri, alla faccia del funzionalismo.

Si rende necessaria una precisazione, tanto per non pensare che “funzionalismo” sia un’offesa… I funzionalisti in psicologia e neuroscienze pensano che “cervello e computer siano intercambiabili” (Mente e Cervello, Ed. Le Scienze S.p.A., N. 2, anno 1, marzo-aprile 2003, pag. 33). Il “cervello” sarebbe l’hardware per il software “mente”. Riedizione, piuttosto fetente, del dualismo di Cartesio tra “corpo” e “mente”. Fatta da gente che non sa niente di macchine o, almeno, non le ama né le capisce. Se la metti così è perché in qualche modo pensi che gli uomini siano macchine: delle strane, astratte, fantasmatiche macchine. Che non esistono. Perché gli uomini non sono macchine. Ma le macchine sono uomini.

Gli africani corrono, sono bravi a correre, è un loro talento, sono fatti così. Mennea fu grande perché vinceva anche contro di loro, e non sempre… Nello sport che puzza d’olio bruciato i cervelli degli ingegneri italiani sono mito e leggenda. E, se non ci hai provato, non puoi sapere quanto la combinazione di puzza d’olio, rumore da spaccare i timpani e terra che trema dalle vibrazioni possa farti impazzire. O renderti geniale. Forghieri e prima di lui Chiti o Colombo sono campioni epici. Titani ed eroi pure loro, come i piloti Varzi o Taruffi, Nuvolari o Agostini. Chi è giovane non sa perché, secoli dopo le corse vinte, le Alfa ancora fanno battere i cuori. Vincere le corse conta, ma di più conta come lo fai. Un gesto significativo resta e insegna per tanto tempo, anche dopo che è stato fatto. Ha qualcosa da dirti.

Il campione più grande che l’Italia ha dato allo sport dei motori nasceva a San Giorgio Canavese nel 1891. Si chiamava Vittorio Jano (fig. 2). Fu una mente, per chi ne sa, paragonabile a Porsche o Chapman. Progettò le Alfa Romeo, meglio, ne fece leggende. La P2 fu la prima macchina da corsa a un posto solo, una “monoposto”, appunto. Il 13 maggio 1950 la storia inizia a Silverstone. Era una cosa nuova e appena nata, la Formula 1, e alla fine della sua prima corsa in testa c’erano tre “Alfette”, il nome affettuoso della 158. Una tripletta, per cominciare, ma con auto che Jano aveva disegnato tredici anni prima. La prima uscita dell’Alfetta, il Gran Premio d’Italia del 1932, era stata una vittoria di Tazio Nuvolari.
Venticinque anni prima, a Spa, Jano aveva compiuto un gesto significativo. In Belgio la corsa era rimasta senza le Delage, le macchine di casa, e questo ai Belgi non era piaciuto affatto. Fischiavano e protestavano a vedere le Alfa in testa. Jano non ci poteva stare. Richiamò le sue auto. Benzina, per cominciare, e poi lavate e lucidate le macchine. E, dato che c’è tempo, per favore, un tavolo ai box, dove Jano decide di mangiare. Davanti a belgi. In mezzo alla corsa. Per fare poi ripartire le Alfa. Con Ascari e Campari che vanno a vincere.

Ancora un altro salto nel passato. All’epica maratona di Londra del 1908, Dorando Petri cade, si rialza aiutato, vince la maratona, lo squalificano e il suo gesto entra nella storia e nella leggenda.

Non sul campo da gioco, né in corsia, ma sul tavolo da disegno, Jano non è da meno. I suoi motori, i disegni e, più di tutti, i gesti e l’umanità, sono da campione, uno che non si dimentica, che potenzia sé stesso attraverso pensiero e costruzione.

Chi sa le cose li definisce correttamente “strumenti protesici”. L’uomo diviene più degli animali perché sta in piedi. Per le sue mani, libere. Perché parla. Ma anche perché, sistematicamente, inventa macchine. Non corre tanto, ma fa ruote. Non vola, ma fa aeroplani. Non dobbiamo aspettarci di diventare cyborg: lo siamo, fin dall’inizio. E le macchine non sono “estranee”, sono parte di noi e nostre estensioni. Non c’è macchina umana che possa interessare un extraterrestre. Le macchine, tutte, sono per noi, ci esprimono, le pensiamo e fabbrichiamo per andare dove il nostro corpo non arriva, ma la nostra mente sì. Sulla Luna, su Marte se vuoi, “verso l’infinito e oltre”, come dice Buzz Lightyear in Toy Story. L’Apollo 11 è un sogno, sì, ma non solo americano. Non pezzi di ferro, ma ragione ed emozione. I cinesi che li costruiscono pensano ai circuiti dei computer come a forme di preghiera: se glielo chiedi te lo spiegano anche. Le Lotus si chiamavano così perché questo era il nomignolo affettuoso che Colin Chapman (fig. 3) usava per sua moglie Hazel Williams. Erano macchine da corsa, ma anche i fiori che quell’uomo offriva alla sua donna, che per lui era un loto. Non era roba per una donna? Per Hazel sì. Tanti anni prima di diventare sua moglie, lei aveva impegnato su di lui le prime venticinque sterline che a Colin servivano per correre…

Grazie a Loris, quindi, capo pellerossa che la Desmosedici faceva galoppare pancia a terra. E grazie a Filippo e a tutte le persone che l’hanno disegnata. Grazie ai piloti e ai costruttori che nei prossimi mesi sapranno sicuramente farci sognare con nuove macchine. L’uomo si riconosce dalle macchine che sa costruire, che siano macchine a due o quattro ruote, macchine da scrivere o macchine da cucire. E per arrivare alle nostre “macchine da musica”, come un amplificatore o un paio di casse, il passo è più breve di quanto sembri.

Insomma, il resto al prossimo articolo.

 

1 di 4 - Alla seconda parte

di Angelo N. M.
Recchia-Luciani
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