Talora mi chiedo se i jazzofili soffrano di nostalgia. Non tanto per la tradizione, nemmeno per l'epoca dei bopper o di tutti quei solisti – e sono tanti – che hanno contribuito, nel tempo, all'importanza di questa musica. Credo invece che la gran parte degli appassionati di jazz nati negli anni '50 fino ai '70 e poco oltre sembrino provare un certo richiamo sirenico per l'epoca aurea del rock, dove chitarre robuste e incattivite da effetti distorsivi dominavano la scena del panorama musicale giovanile di allora. Inutile negarlo, ai jazzofili nati e cresciuti nel ventennio di cui sopra procura sempre un certo piacere ascoltare del rock ben suonato. Non necessariamente da gruppi storici del passato ma anche da band contemporanee che evitino di banalizzare il genere, rifiutando i più smaccati luoghi comuni e portandosi oltre i limiti di un certo manierismo nel raccontare una verità antica che appare nonostante l'età sempre nuova e coinvolgente.
Live in Italy - Genoa 2024 di A Love Electric appartiene senza dubbio a questa categoria, mostrandosi per quello che effettivamente è, cioè una rivelazione, o meglio, un’apocatastasi musicale, un ritorno, un riallacciarsi al senso della memoria del rock, quello migliore carico di energia e ritmica sapienza. A dire la verità, i componenti di A Love Electric suonano propriamente in uno stile riconducibile a matrici ben conosciute. È indubbio che, al di là delle influenze hendrixiane e delle devianze jazzy del leader Todd Clouser, chitarrista da sempre in odor di eresia che guida la direzione musicale del gruppo, non si faccia fatica nel decriptare l'onda elettrica che ne risulta, al pari di una potente mareggiata in stile fondamentalmente rock. I musicisti, catturati live all'interno dello spazio Lomellini di Genova, sembrano fusi in realtà in un unico organismo pulsante di groove funk, di blues che scivola nel jazz, di rock psichedelico incarnatosi in improvvisazioni febbrili. La musica che ne consegue è un richiamo a una sorta di originaria forma sonora, come se Clouser e il suo ensemble stessero attingendo a una conoscenza musicale originaria e archetipica. In definitiva, l'album pare l'ideale viaggio nel contesto di uno spontaneo modo di far musica, con poco spazio, tutto sommato, per la nostalgia. Ci si muove infatti nel recupero e nella ricerca di quel divertimento e di quella capacità di coinvolgimento che si trova, nel limite di una quarantina di minuti circa, nel senso collettivo dell'eccitazione performativa.
La band s'incentra attorno al già citato Todd Clouser, alla chitarra e alla voce. Questo chitarrista, attivo a Città del Messico e coinvolto nella scena avantgarde-rock con alle spalle diverse collaborazioni, ad esempio con John Lurie, John Zorn, John Medesky e Keb Mo, viene qui affiancato da un altro chitarrista, il milanese Alberto N.A. Turra, anch'egli amante di quei territori di confine dove non è mai lecito parlare di generi musicali ben definiti. Accompagnano i due il bassista elettrico Aaron Cruz, anch'egli di Città del Messico, e il batterista concittadino Jorge Servin. Il dialogo tra i musicisti – Clouser, il leader visionario, e Turra, con la sua chitarra che sembra intessere un filo d’Arianna tra passato e futuro – è il vero fulcro dell'album. Si percepisce quella tensione che crea l’equilibrio più difficile e meno accomodante possibile, cioè quello dinamico frutto di un continuo movimento tra improvvisazione e segmenti precedentemente concordati. Sorprende il fatto che tutto questo sia avvenuto senza prove preliminari. Turra ha studiato le parti inviate da Clouser senza mai incontrare la band prima del concerto. Eppure, il risultato è coeso, vibrante, un pronti-e-via come se gli artisti parlassero una lingua ritrovata dove il pubblico è invitato – e lo si ascolta partecipare tra un brano e l'altro – a riconoscerne i sintagmi, lasciandosi andare ad un rito di comunione pagana non più celebrato in grandi spazi ma nell'intimità di un luogo discreto, più raccolto, quasi bohemien.

Gli accordi distorti e gli arpeggi chitarristici si aprono tra le citazioni poetiche di Clouser nel primo brano dell'album, Barrio Maniaco. Uno stacco deciso in stile Cream devia verso una forma reggae piuttosto spiritata, mentre il basso poderoso sequenzia le battute. Altro stacco decisamente rockeggiante e altro ritorno verso un dub pieno di echi e riverberi. Si sta su un accordo solo ma questa è la via giusta per dilatare lo spazio musicale, tra effetti wha-wha e ricordi quicksilveriani del periodo fine '60 o giù di lì. C'è mezza California di quegli anni tra le righe di questo brano, tanto che mi sono venute in mente quelle locandine psichedeliche create per pubblicizzare i concerti live in San Francisco, con tutti quei disegni di peyote e galassie stellari allora di moda.
Agatha possiede un incipit favoloso che provoca lampi d'entusiasmo, mentre il batterista scatena i suoi cavalli con un drumming impetuoso. Le chitarre divampano di fuoco e fiamme almeno fino a metà brano. Qui la tensione si raffredda e i suoni si diradano mentre il basso prende terreno. Nella seconda parte, progressivamente, Clouser e Turra si riaccendono in un colloquio che paiono John Cipollina e Gary Duncan in una sorta di inedita Happy Trails “part two” e se siete ancora scettici andate pure a risentirvi quel vecchio masterpiece.
Slow Wave, accidenti, è proprio lento lento come suggerisce il titolo e inizia con qualche sporadico colpo di rullante. Le chitarre, finalmente pulite, ricordano la timbrica dei primi Fleetwood Mac, quelli che ancora potevano contare su Peter Green. Brano atmosferico, un quasi blues dall'aspetto notturno e un po' disfatto.

Where's her Money From ha un incipit che ha riacceso il lumicino votivo dei Ten Years After in Love Like a Man dall'LP Crickle Wood Green del 1970. Qui le continue citazioni verbali di Clouser sono anche troppo invadenti e tolgono un po' di peso alla composizione ma nel contempo il dialogo tra le chitarre si fa più intensamente secco e pungente. Bisogna aspettare che il parlato s'interrompa per gustare il duetto chitarristico tra gli effetti a pedale e l'intenso sforzo ritmico di basso e batteria. Si finisce con una specie di funky rock che piace molto al pubblico, almeno stando all'intensità degli applausi.
White Jesus inizia un po' sottovoce con il basso quasi blues che precede il parlato-recitativo del leader e il suo breve intervento canoro nel chorus ma evidentemente le qualità musicali di Clouse si fermano alla chitarra. Potremmo dire che il cantato del leader è ininfluente nell'economia del brani perché le due chitarre continuano a parlarsi con i loro suoni corposi e il fantasma di Hendrix viene evocato tra le spire degli accordi distorti, tirati allo spasimo degli strumenti.
Si chiude con i suoni desertici di Tialpan Girl, dove finalmente Clouse s'azzarda nel canto. Una ballad dai contorni sobri e sofferti sul modello Giant Sand, tra chitarre twangy e batteria monotona. Bisogna aspettare la seconda metà del brano perché la musica si sciolga in un rock voluttuoso e avvolgente come una calda vegetazione tropicale.

Il suono grezzo e scontornato di questo Live in Italy ci ha decisamente portato verso la pancia di un rock poco avanguardista e piuttosto piacevolmente retrò. Un turbinio di suoni e sudorazioni s'accompagnano all'esperienza genovese di questa band che scheggia le proprie chitarre tra corde dilaniate e lampi di paesaggi immaginari, trasposti dalle Americhe alla penisola italica quasi senza particolare sforzo. E non si può negare il gran divertimento nell'ascoltare questa band e le sue affascinanti esplorazioni timbriche che, benché non nuove, sono all'origine di quel velato sentimento nostalgico che può provare, saltuariamente, un vecchio jazzofilo Born in the 50's come me.
A Love Electric
Live in Italy - Genoa 2024
Al momento solo formato digitale liquido
Disponibile su Qobuz 16bit/44kHz e Bandcamp mp3 oppure download 24bit/48kHz
Disponibile in mp3 anche su Spotify