Andrew Bird | Sunday Morning Put-On

27.09.2024

Ogni tanto, tra la varietà dei numerosi album proposti, capita un lavoro extra-ordinario come questo. Che non significa trovarsi di fronte a un capolavoro, cosa che Sunday Morning Put-On, sinceramente, non è. Ma certamente è abbastanza insolito che un artista navigato come il cinquantunenne statunitense polistrumentista Andrew Bird, dal passato musicalmente molto eclettico, decida dopo una trentina d'anni di carriera trascorsi quasi tutti tra indie-rock, folk, pop, pillole jazzate e accenni swinganti di gioventù, di dedicarsi a una rivisitazione dei grandi classici del Great American Songbook. Di per sé non ci sarebbe niente da sorprendersi, dato l'elevato numero di artisti soprattutto americani – Dylan in testa – che prima o poi si sono misurati con la tradizione dello standard jazz. Se non fosse che Bird decide di affrontare questi brani – nove su dieci, perché l'ultimo, splendido pezzo è una composizione originale – con un trio ridotto all'osso nel quale lui stesso canta, fischietta e suona il violino, tra l'altro benissimo.

 

ll titolo dell'album si riferisce a una trasmissione radiofonica che ogni domenica mattina durante gli anni '90, a Chicago, città natale di Bird, diffondeva brani storici della canzone americana, datati per lo più anni '30 e '40, firmati da super compositori come Cole Porter, Rodgers & Hart o Duke Ellington. Dalle frequenze della WBEZ, il famoso intrattenitore radiofonico Dick Buckley deve averlo fortemente suggestionato, a tal punto che Bird ha probabilmente coltivato per molto tempo l'idea di proporsi a tu per tu con questi standard. La musica che ne risulta sembra una metafora acustica di quei presse-papier di vetro i quali, se capovolti, mostrano in trasparenza la neve che cade. Cioè, Bird tratteggia dei micro-mondi che sembrano quasi avere intorno a sé un alone nostalgico di un'epoca scomparsa e rievocata quasi per gioco. Ma attenzione! Bird non è un crooner, né un simpatico fighetto come Bublé o Harry Connick Jr. Innanzitutto, il violino, archettato, pizzicato o ancora suonato come un mandolino, è il perno attorno a cui ruota tutta la musica e inoltre il suo modo di cantare è più soave che tecnico. Sembra una via di mezzo tra il timbro vocale di Ben Sidran e quello di Rufus Wainwright. Certamente molto intonato ma non indimenticabile.

 

La ritmica è composta dal batterista e vibrafonista Ted Poor e dal contrabbasso di Alan Hampton che sono la quasi esclusiva fonte d'arrangiamento, a parte qualche occasionale intervento di due affermati jazzisti come Jeff Parker alla chitarra e Larry Goldings al pianoforte.

 

Riascoltando la raccolta operata da Bird di questi brani iconici della tradizione colta nordamericana, non possiamo ignorarne l'originalità delle riproposizioni, scarnificate e denudate nella loro essenza, attraverso una progressiva tecnica di sparizione di molti luoghi comuni esecutivi. Niente accenno ai sospirosi gorgheggi neoromantici di quelle decine di artisti che, a parte una manciata tra i più grandi, hanno nel tempo “manierizzato” queste composizioni, confezionandole spesso in eleganti bonbon pronti alla degustazione. A tratti, forse complici le sonorità del violino, si ha come l'impressione di tremolii di ectoplasmici ricordi, sortilegi melodici di un'epoca eccentrica ed eccezionalmente creativa, probabilmente oggi irripetibile. Bird si guarda bene dal de-costruire questi brani, egli infatti non si può definire un jazzista “di scuola” e probabilmente non avrebbe i mezzi tecnici per poter dissociare le cellule musicali e magari ricostruirle secondo un nuovo ordine. Ma, al contrario, s'avvicina a tutti questi brani con la consapevolezza di mantenerne un profondo rispetto, convinto come effettivamente poi dimostra, di contribuire emotivamente per il giusto verso a queste interpretazioni, offrendo il massimo di sé stesso. Non un banale esercizio di stile, quindi, ma a ben vedere un mazzo di rose rosse regalato alla musica che lo ha segnato negli anni giovanili.

 

Andrew Bird - Sunday Morning Put-On

 

I Didn't Know What Time it Was è il primo brano ad apparire in sequenza, è del 1939 ed è firmato Rodgers & Hart. Il pezzo ha avuto, nel tempo, più che credibili versioni da parte della Fitzgerald, di Sinatra e della Holiday, ma qui Bird opta per una trasformazione radicale nel modo di proporla, eliminando i romanticismi, togliendo il cappello introduttivo per concentrarsi sul chorus e ridisegnando il tutto come un blues quasi spettrale. Evitando facili ammiccamenti, Bird punta sull'essenziale e struggente timbro del violino, inizialmente pizzicato per poi, con l'archetto, farlo assurgere a un espressivo e misurato assolo. Operazione non così facile, almeno sulla carta, ma ben riuscita, tanto da catturare immediatamente l'attenzione dell'ascoltatore.

Caravan rappresenta quasi il marchio di fabbrica ellingtoniano – con Juan Tizol come coautore – ed è un brano del 1936. Bird ne coglie un aspetto zingaresco, ipnagogico, pieno di oscurità rischiarata da qualche fuoco da campo, in cui i lapilli scoppiettanti sembrano suggeriti dal pizzicato del violino. Da sottolineare l'asciutto accompagnamento percussivo e il finale pieno di malinconici echi nostalgici.

I Fall in Love Too Easily è un meraviglioso pezzo del 1944 firmato da Styne e Cahn. In questo caso Bird mescola un po' le carte, immettendovi quel pizzico di swingante romanticismo che non tradisce l'originale caratteristica accorata del brano, mantenendolo però in equilibrio ed evitando superflue smancerie. A supporto interviene il discretissimo pianoforte di Goldings con qualche subitaneo colore espressivo ai margini del brano stesso. Una versione che tira dalle parti di Chet Baker ma con un assolo di violino melodicamente insidioso e di grande valenza emotiva.

You'd Be so Nice to Come Home To è un pezzo creato da Cole Porter nel 1943 in cui si può godere dello stesso violino quasi suonato come una chitarra, persino con qualche bending. Il brano è stato però asciugato eccessivamente, con l'insistente contrabbasso che rimarca le fondamentali, forse per creare un ritmo incalzante ma che, francamente, risulta al fine un po' monotono.

 

Andrew Bird

 

My Ideal, del 1930, riconosce la scrittura a tre mani di Whiting, Chase & Robin. Anche questa versione ha il suono torbido e delicato a ricordare la voce di Baker e bisogna dire che la traccia in questione è veramente ben cantata e sentita da Bird. Atmosfera un po' languida, con il vibrafono di Poor che s'inventa un delicato assolo in punta di battenti, seguito dal violino e dal fischio, notturno e solitario, dello stesso Bird.

Django è datato 1954, brano scritto da John Lewis, pianista del Modern Jazz Quartet, dedicato al grande chitarrista belga Django Reinhardt. Dopo un'introduzione a pizzicati di violino, lo strumento di Bird con il vibrafono e insieme a un bel giro di contrabbasso, sembrano creare l'anticamera per una continuazione sentimentale, col rischio però di qualche sdolcinatezza. Invece la ritmica si compatta attorno allo strumento solista, con Poor che s'alterna tra batteria e lo stesso vibrafono – poteva mai mancare questo strumento in una versione del MJQ? – e il brano si riempie dello swing originario impostato da Lewis.

I Cover the Waterfront è una composizione di Green e Heyman del 1933, conosciuta soprattutto per l'intensa e inarrivabile versione di Billie Holiday. Bird imposta il brano con più leggerezza e una morbida impronta di swing, trovando inoltre la dimensione adatta per un assolo di violino da condividere con la chitarra ultra-morbida di Parker.

Softly, as in Morning Sunrise proviene dalla penna di Sigmund Romberg, brano scritto nel 1928. Inizialmente la voce di Bird sembra arrivare da una stanza a fianco piena di riverberi, introdotta da un pizzicato di violino all'unisono con la chitarra. Poi tutto si normalizza, tra le spazzole fruscianti di Poor e il puntuale contrabbasso di Hampton. Doppia sequenza di assoli, il primo notevolmente pulito di violino e il secondo, alla chitarra, breve e raffinato a ricordare qualche trama di Jim Hall.

I've Grown Accustumed to Her Face è del 1956 e proviene dal musical My Fair Lady, pezzo composto da Loewe e Lerner. Probabilmente è la traccia meglio cantata da Bird, che ci fa scoprire nella sua voce un inaspettato campionario di delicate sfumature. Sullo sfondo l'accoppiata chitarra più vibrafono che partecipano al clima un po' disilluso della canzone.

Per finire, un gran brano dello stesso Bird, Balloon de Peut-Etre, quindi lontano dal revisionismo musicale fin qui condotto. Nove minuti e passa d'intensa atmosfera, dalle tracce inizialmente quasi irlandesi dell'assolo di violino, fino ai climi mediorientali nel prosieguo. Uno di quei momenti che potrebbero durare anche ore senza stancare, in cui al trio originale si aggiungono le cornici modali della chitarra. Gli stacchi, docili e misurati, promuovono moderati cambi direzionali e il tutto sembra un'improvvisazione molto melodica, liquida, con la voce del violino meritatamente in primo piano.

 

Andrew Bird

 

Andrew Bird non sembra aver fatto particolari ricerche sulla cantabilità dei brani affrontati. Tuttavia, anche se la sua voce non ha caratteristiche memorabili, affronta tutto con naturalezza, senza forzature né rischi di esporsi a sfavorevoli termini di paragone. La scelta di un accompagnamento minimale premia il suo sforzo di uscire da certi dogmatismi esecutivi, scegliendo la strada più sobria possibile, evitando museali sentimentalismi o peggio ancora fuggendo da feticistiche megalomanie orchestrali. Infine, dulcis in fundo, un violino come questo, bello, melodioso e contenuto, non è che sia poi così facile da ascoltare, perlomeno in ambito jazz.

 

Andrew Bird

Sunday Morning Put-On
CD e LP Loma Vista Recordings 2024

Reperibile in streaming su Qobuz 24bit/96kHz e su Tidal qualità max fino a 24bit/192kHz

di Riccardo
Talamazzi
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