Non saprei come descrivere il mio interesse per questo disco di Barry Gibb. Forse gioca la nostalgia, forse un improvviso bisogno di leggerezza. I Bee Gees mi avevano pur suggerito qualcosa all’orecchio, diversi anni fa, ben prima di raggiungere una fama planetaria con la colonna sonora di Saturday night fever. Correva l’anno 1969 e fra le mie mani capitò un lp dalla copertina rossa, vellutato al tatto, insolitamente sobrio ed elegante in un’epoca in cui i dischi venivano presentati quasi tutti con le facce dei musicisti in primo piano e i titoli con gli svolazzi barocchi tipici della moda psichedelica. Quell’Odessa è un lavoro che ancora oggi dice la sua con autorevolezza e che può trovare onorevolmente posto in ogni raccolta di dischi che si rispetti. Certo, il gruppo dei fratelli Gibb da allora si consacrò ancora di più a una musica di grande presa emotiva, ma non ho comunque timore di affermare che scrissero tra le migliori pop-songs degli anni ’70.
Barry Gibb è il solo sopravvissuto dei tre fratelli fondatori e in questo lavoro Greenfields, a parte un inedito e un paio di rarità, ripropone alcune tra le composizioni più famose del gruppo, scegliendo però di cambiarne l’abito e trasformandole parzialmente in ballate country-pop. Sarà stata l’aria di Nashville, dove il disco è stato registrato, sarà stato per i duetti con artisti provenienti in massima parte da quell’area musicale, ma l’operazione è ben riuscita, ben arrangiata e concepita. Insomma, una piacevolezza d’ascolto come raramente possiamo cogliere da semplici brani di pop music. Bisogna dire che l’abilità compositiva dei Bee Gees non è quasi mai venuta meno, anche se, mi si perdoni l’apparente alterigia, il loro periodo discotecaro e travoltiano, personalmente, non l’ho mai potuto soffrire. Ma in questo Greenfields si respira un ritorno a casa, una voglia di pacche sulle spalle, una regressione a un periodo più felice per tutti, o quasi, tra quelli che oggi hanno pressappoco la mia età.
S’inizia subito con il classico I’ve gotta get a message to you, duettato con il cantante country neozelandese Keith Urban. Per riflesso condizionato torna alla memoria la versione a 45 giri di Mal & i Primitives, quel Pensiero d’ammoreeei in cui l’idolo inglese delle ragazzine cantava, come esigeva la moda di allora, un italiano dalla pronuncia improbabile. Il brano esordisce con una bella accoppiata organo e pianoforte e l’immancabile accompagnamento orchestrale verso il finale. Words of a fool, brano inedito, è una ballatona un po’ zuccherosa ma pur sempre solida nell’accompagnamento in cui accanto a Gibb compare Jason Isbell, e se non conoscete questo nome forse vi ricorderete almeno dei Drive by Truckers, la band da cui Isbell originariamente proviene. Procedendo nell’ascolto s’incappa in Run to me ben cantato in coppia con la cantante e autrice Brandi Carlile. Se non vi spunta qualche lacrimuccia al ricordo della vostra tardo- adolescenza allora significa che la vita vi ha indurito più del necessario… Ma fate ancora in tempo a lasciarvi andare col prossimo brano, Too much heaven, a cui la limpida voce di Alison Krauss, in duetto col Gibb, liscia il pelo alla melodia, ben costruita per piacere e – guarda un po’ – piace per davvero. Lonely days è un vero e proprio colpo al cuore che riporta agli anni ’60, ma l’inizio mi ricorda i Beatles, anche se poi il brano prende nerbo grazie all’apporto vocale del gruppo country dei Little Big Town e alla sezione robusta di fiati nel sottofondo. Una delle migliori canzoni dei Bee Gees fu Words, che qui viene purtroppo penalizzata, a mio parere, dall’ìnstabile protesi dentaria della Dolly Parton che si mastica le sibilanti. I sospiri finali di Barry Gibb peggiorano, se possibile, ancor più la prestazione. Jive talkin’ è uno scintillante brano soul, reso bello fluido da un coro formato dalla country singer Miranda Lambert insieme a Jay Buchanan, cantante dei Rival Sons. How deep is your love accende tutti i lumini da stadio disponibili ma il brano è veramente un piccolo capolavoro pop e sfido chiunque a non canticchiarlo, magari inventandosi le parole sull’orecchiabilità della musica. E qui appare la delicata chitarra di Tommy Emmanuel, che al suo strumento sa far fare qualsiasi cosa. Arriva un altro pezzo epocale della premiata ditta fratelli Gibb, How can you mend a broken heart, e questa volta il duetto vocale è affidato alla voce di Sheryl Crow, bravissima, forse il miglior intervento dell’intero disco. Siamo a To love somebody, tra i capolavori dei Gibb, brano rifatto sotto diverse latitudini e angolature, ma da qualsiasi parte lo si rigiri resta una delle migliori pop song di sempre, qui resa ancora più incisiva dall’aiuto di Buchanan che contribuisce a darle una marcata impronta soul. Rest your love on me ripesca nientepopodimeno che Olivia Newton-John, oggi ultrasettantenne, ma che tutti ricordiamo eterna ragazzina a fianco di John Travolta in Grease… Butterfly chiude bene il disco, intonata a tre voci con Gillian Welch, la folk singer newyorkese e David Rawlings, con cui la Welch ha spesso collaborato.
Un lavoro divertente, nostalgico quanto basta, ruffiano per necessità e, d’altra parte, qui si parla di tempi passati. Tempi in cui, con alcuni amici, ascoltavo il jukebox della stazione da cui spesso usciva la musica dei Bee Gees. Ricordo con piacere Kilburn Towers, che mi aspettavo di trovare in questa raccolta. Chissà, forse la prossima volta, dato che il sottotitolo di questo lavoro, The Gibb Brothers song book vol.I, fa pensare a successive occasioni.
Barry Gibb & Friends
Greenfields
CD Capitol/Universal 2021
Reperibile in streaming su Qobuz 16bit/44,1kHz