Il corteggiamento del jazz nei riguardi della più aristocratica musica classica è stato decisamente più insistente di quanto non sia avvenuto in senso contrario. Certo, ricordiamo l'attrazione che avvertì Ravel per la musica nera nel suo viaggio statunitense e il riconoscimento verso Gershwin a cui rifiutò di dar lezioni – secondo la leggenda – ritenendo il giovane compositore americano già maturo e autonomo da par suo. E del resto se ascoltiamo, sempre riferendoci a Ravel, il suo Concerto per pianoforte e orchestra in Sol, non è possibile non riconoscere le scale blues del primo movimento e avvertire quindi l'inconscia – forse – influenza del Maestro di New York. Destino più o meno analogo l'ebbe Milhaud, anch'egli affascinato dai suoni di Harlem, e stiamo sempre parlando degli anni '20 del XX secolo. Poi sono piuttosto note le aree d'influenza della nuova musica americana che comparvero nelle composizioni di Stravinsky, ad esempio. Sappiamo inoltre delle serate bolzanine di Benedetti Michelangeli, che non disdegnava di rilassarsi ascoltando dal vivo qualche gruppo di jazzisti, con la sua ammirazione per Oscar Peterson, che considerava un pianista naturale di altissimo livello, pur non avendo quest'ultimo studiato musica... E che dire della biografia dell'austriaco Friedrich Gulda e della sua frequentazione compositiva nell'ambito del jazz?
Sicuramente un attento filologo potrebbe citare molti altri esempi ma è indubbio come, al contrario, il magnetico richiamo della Storia e della profondità della musica classica, abbia da sempre costituito sia il territorio formativo che la sirenica fascinazione compositiva per molti jazzisti, soprattutto pianisti. Forse la “colpa” originaria risale a Chopin e a quel suo modo caratteristico di girare attorno alla nota risolutrice d'una melodia, prima di cadervi sopra, metodo che sarà molto utilizzato ad esempio nel be-bop da un faro del jazz pianistico come Bill Evans.
Focalizzandoci su quest'ultimo lavoro di Brad Mehldau, Apres Faurè, uscito in contemporanea con un secondo album dedicato a Bach dopo il primo After Bach del 2018, si commenta un pianista dalla forte formazione classica ma che non potremmo far a meno di definire anche come un puro jazzista per la preponderante attitudine all'improvvisazione. Eppure, fin dai tempi dei tre volumi di The Art of a Trio e soprattutto nelle pieghe un po' decadenti dello spirito mitteleuropeo fin de siecle di Elegia Cycle, 1999), insieme ai discussi duetti con Anne Sophie Von Otter del 2010 e Renée Fleming nel 2006 e citando inoltre anche il lavoro orchestrale di Variations on a Melancholy Theme del 2021, Mehldau è sempre stato calamitato dal classicismo pianistico. Come se avvertisse il bisogno di fuggire dagli schemi tradizionali del jazz, smentendo il ruolo ancillare della musica classica nel contesto delle proprie performance.
Non voglio, personalmente, appropriarmi di un ruolo non mio e quindi non mi sostituisco certo a un buon conoscitore di musica classica e di Faurè nello specifico. Non sono in grado di condurre paragoni adeguati con illustri interpreti dei brani dell'autore francese come ad esempio A. Rubinstein o Pascal Rogè o ancora Sally Pinkas. Il sito web Spectrum Culture, ad esempio, si esprime senza perifrasi attorno a questo progetto dove, accanto alle lodi scontate sulla bravura tecnica di Mehldau conclude con un boccone avvelenato, affermando che lo stesso artista “non è all'altezza degli standard stabili dei musicisti di formazione classica quando si tratta di Faurè... Non ha il tocco giusto per il francese...”. Per questo cercherò di concentrare la mia attenzione soprattutto sui quattro brani composti da Mehldau “nello stile” di Gabriel Faurè – Prelude, Caprice, Nocturn, Vision – per capire non tanto come e fino a che punto il pianista della Florida si sia empatizzato coll'autore francese, ma per rintracciare in questo album gli eventuali legami e motivazioni, semmai ne esistano, che questi suoi brani “alla maniera di” possano avere con il jazz.
Teniamo presente poi che Faurè – ricordate l'intrigante versione pop della sua Pavane che ne fece Brian Auger nel 1970? L'album si chiamava Befour – è vissuto in quel periodo tra fine '800 e inizio '900 in cui gli elementi di tardo romanticismo venivano stravolti dalle nuove visioni estetiche del ventesimo secolo. Nei trattati di armonia moderna di allora non si consideravano più così dissonanti certi accordi come le settime minori e le none, inoltre venivano proposte, come nelle scale blues, delle terze minori che si potevano muovere su accordi di modo maggiore, anziché su quelli in minore come da tradizione.
L'interpretazione strettamente di Faurè da parte di Mehldau riguarda quattro Notturni e un estratto dal movimento Adagio del Quartetto per pianoforte in Sol min n.2 Opera 45, lavori che provengono prevalentemente dagli ultimi suoi periodi di carriera, quando il compositore cominciò a soffrire di un'accentuata sordità che forse incrementò il suo sentimento d'introversione. Nelle note di copertina di Apres Faurè, l'opera del compositore occitano viene definita come una musica che “trasuda austerità e stranezza”. Sarà quest'ultima qualità ad aver acceso l'inquieta impronta caratteriale malinconica dello stesso Mehldau? Potrebbe essere giusto questa la chiave per accedere al proprium di questa interpretazione? Lascio, come già detto, a chi ha maggior competenza rispetto alla mia ogni eventuale giudizio su questa versione dei brani di Faurè ma da parte mia posso comunque rilevare, oltre alla scontata bellezza della musica, la sensazione di “agitato riposo” che queste interpretazioni esercitano sul mio sistema nervoso, qualcosa d'intimamente imparentato con la medesima, gradevole impressione che mi lascia il jazz solitamente suonato da Mehldau.
S'inizia quindi col Notturno n.13 in Si minore op.119 del 1921. Scritto tre anni prima dalla morte, questa evocazione notturna si colloca palesemente tra l'eco di un romanticismo chopiniano e le sembianze della nuova musica novecentesca. Compaiono diverse dissonanze, che oggi ci paiono appena riconoscibili, seminate tra l'intensa melodia e la struttura armonica che vi si aggrappa con oscure sensazioni ansiogene, appena stemperate dal finale. Dopo una serie di turbinose scale a rincorrersi l'un l'altra, infatti, le note si concentrano in un ultimo sussulto, non così pacificato come potrebbe sembrare.
Quello che segue, il Notturno n.4 in Mi bemolle maggiore op.36 fu scritto quasi quarant'anni prima rispetto al brano precedente e si muove in effetti più tranquillamente, approfittando della stabilità del tono maggiore a mostrare un'ipotesi di scrittura più dolce con momenti di incantata sospensione e rarefazione melodica. Il tema è ben scandito e gli accordi, sia pieni che arpeggiati, lasciano che lo sviluppo melodico sia più libero e leggero nel suo svolgersi.
Il Notturno n.12 in Mi minore op.107 si colloca in un tempo intermedio tra i due precedenti con un aspetto più fantasioso e moderno e un inizio "debussyano", ricordando il Clair de Lune che fu scritto quindici anni prima rispetto a questo notturno. Ancora ben compenetrato di romanticismo ottocentesco ma nel contempo, grazie ad armonie più in linea coi tempi, proiettato verso il modernismo, il brano è tuttavia posseduto da inquietudini profonde e da sensazioni quasi furiose, tanto che sembra in molti punti allontanarsi dalla dimensione più classica del Notturno. Mehldau si fa rapire dal clima che, evidentemente, come già notato in precedenza, sembra corrispondergli apertamente.
Ecco quindi il primo dei quattro brani composti da Mehldau stesso ma ispirato dalla presenza artistica di Faurè. Il Prelude in Mi maggiore dimostra tutta la sua modernità attraverso un deciso minimalismo, almeno rispetto ai lussureggianti schemi accordali dell'autore francese. Una dimensione reiterante e ostinata nell'accompagnamento arpeggiato si esprime in un linguaggio forse troppo spiccio, pur se giocoso e sdrammatizzato. Nonostante un utilizzo più contemporaneo ma pur sempre controllato delle dissonanze, ci si colloca in una dimensione poco netta, lontani sia dai toni lirici di Faurè che da qualsiasi forma jazzistica.
Caprice si riavvicina ai toni francesi, recuperando in un vortice allucinatorio di suoni parte delle ombre inquiete dei notturni precedenti. In cerca di crescendo romantici, Mehldau pare avvicinarsi più a Ravel che non allo stesso Faurè.
Passando a Nocturne, si nota da un lato la tendenza altalenante alla ripetizione degli ottavi nell'accompagnamento, aspetto che in effetti àncora l'esecutore alla dimensione, comunque non esasperata, di certo minimalismo odierno. Ma da un secondo punto di vista non si può negare lo spazio lasciato al tema melodico. Forse è il brano più convincente di questo gruppo di quattro pezzi ispirati da Faurè.
Vision, invece, appare più in linea con corde jazzofile dello stesso Mehldau in quello che sembra essere un esercizio tecnico con una serie crescente di veloci arpeggi che s'allontanano dal centro della tastiera andando a confrontarsi coi toni più acuti sino a sfiorare i tasti muti all'estremità. Importante contrappunto con la mano sinistra e dimostrazione – ma forse non ce n'era assoluto bisogno – della capacità esecutiva del pianista americano. Certo, c'è molto contrasto tra questi brani e quelli originali riproposti dalle partiture di Faurè. E forse c'è anche un senso preciso nel sottolineare questi contrasti, facendo sì che Mehldau abbia provato a creare un luogo intermedio tra modernità e tradizione colta. Ma a dirla tutta preferisco questo pianista quando indossa gli abiti, pur stretti, del jazzista a tutto tondo.
Si torna tra le braccia di Faurè con il Notturno n.7 in Do diesis minore op.74 del 1898. Annotiamo il recupero di una melodia piena, l'abbandono di qualsiasi forma di ripetizione accordale per rituffarsi nel clima ancora ampiamente romantico di fine Ottocento. Però questo notturno appare forse più sereno, almeno nella prima parte, recuperando il medesimo stato d'animo verso il finale dopo un breve periodare tumultuoso.
Conclude un breve estratto dall'Adagio non troppo del Quartetto per Piano n.2 in Sol minore Op.45. L'interpretazione di Mehldau qui appare più intensa e sentita e il brano è in gran parte il risultato di un pregevole lavoro armonico su un tema condotto da tre note – Re, Do, Si bemolle – quindi lavorando melodicamente all'interno dell'accordo di Sol minore.
Fu vera gloria? Dopo questo omaggio non meramente decorativo che Mehldau compie nei riguardi di Faurè, la domanda sembra lecita. L'ascolto ci conduce all'interno di un mondo intimo e un po' tribolato, soprattutto quando si va verso l'ultimo periodo produttivo del grande compositore francese. Non si può affermare che questo album sia una rivisitazione acritica di parte delle sue composizioni, anche perché è presente questa partecipazione attiva con i quattro brani creati e inseriti all'interno del patrimonio originale di Faurè. Proprio questa scelta, nella sua piena e indubitabile onestà, mi lascia francamente un po' perplesso. Non ho avuto l'impressione di aver ascoltato dei futuri memorabilia, per ciò che riguarda le composizioni di Mehldau in questo contesto. Ma, conoscendo il sentimento speculativo che abita nell'animo del pianista statunitense, il suo interesse profondo per il classicismo e la sua eccezionale tecnica strumentale, mi sembra che Apres Faurè sia comunque un'opera degna di ascolto e di riflessione. Per ciò che riguarda il giudizio sulle esecuzioni degli originali francesi lascio ampio spazio ai commenti dei più competenti in questo ambito.
Brad Mehldau
Apres Faurè
CD Nonesuch 2024
Disponibile in streaming su Qobuz 24bit/96kHz e Tidal qualità Max fino a 24bit/192kHz