Ci sono vite curiose che val la pena di raccontare, almeno sinteticamente. Come quella del batterista statunitense cinquantatreenne Brandon Sanders. Nato a Kansas City – lo so, si pensa al Nando Mericoni interpretato da Sordi ma tant'è – in una famiglia dove tutti suonavano uno strumento. Madre violinista, padre trombettista, una zia cantante lirica, il patrigno un collezionista di dischi jazz che suonava il trombone nella banda cittadina. Persino la nonna gestiva un jazz club dal nome esotico e rimembrante di Casablanca. II piccolo Brandon cresce quindi avendo dalla sua sia l'impronta genetica che quella ambientale, assorbendo e metabolizzando tutti quei suoni familiari avvertiti attorno a sé dalla più tenera età. Trasferitosi in seguito con la madre a Los Angeles nel turbolento quartiere di Compton, noto per le guerre tra gang giovanili, il nostro futuro batterista non ha vita facile, in un sobborgo dove anche camminare per strada diventa una scommessa col destino: “Mi hanno sparato due volte... solo perché da bambino cercavo di andare a scuola... “, fonte Kansas Alumni, articolo di Steven Hill del 2023, vedi qui. All'età di diciannove anni Brandon torna a Kansas City per frequentare il college e nonostante la passione per la musica – e per il basket – sempre crescente, dopo gli studi universitari si laurea e diventa assistente sociale, lavoro che tutt'oggi pratica in modo costante. Ma per soddisfare il desiderio di saperne di più sul jazz e sulla pratica musicale, s'iscrive a un corso di Storia del Jazz alla Kansas University e in seguito frequenterà il Berklee College of Music cominciando a suonare la batteria attorno ai venticinque anni, prima di trasferirsi in pianta stabile a New York all'inizio degli anni 2000. Quindi Sanders, tra una pletora di colleghi dediti attivamente agli strumenti musicali fin da piccoli, è un po' una mosca bianca. Impara a suonare tardi ma le sue esperienze lo porteranno a condividere il palco con Joe Lovano, Mike LeDonne, Jeremy Pelt ed Esperanza Spalding tra gli altri.
L'album di cui parliamo oggi, in realtà pubblicato nel 2023, è Compton's Finest, un lavoro d'esordio, anche se un secondo album è previsto in uscita quest'anno. Sanders non è un batterista muscolare, né tanto meno amante di lunghi assoli. Lui stesso si definisce un artista umile, ma in realtà si tratta di un musicista dal tocco piumato, immerso psicologicamente nello swing e nella musica dei padri, quindi dal punto di vista dell'orientamento musicale non c'è nulla di nuovo. Ma gli è che questo album è assolutamente delizioso, un piccolo, prezioso e raffinato manifesto di come il jazz, anche quando non evolve, possieda sempre le sue candide caratteristiche di musica pragmatica, in grado di far muovere il corpo anche senza stucchevoli invenzioni funamboliche. Sanders si occupa del ritmo avendo ben presente il senso del limite che gli potrebbe competere, lasciando agli altri strumentisti – tutti di notevole caratura – il compito di impostare le soluzioni melodiche-armoniche senza dover intervenire più di tanto.
Sugli otto brani che compongono questo lavoro, sei sono standard arcifamosi e due composti dallo stesso Sanders. La formazione che lo accompagna si avvale di due sue vecchie conoscenze come Warren Wolf al vibrafono, suo compagno di studi al Berklee e la vocalist Jazzmela Horn alla voce, più tre talenti tra quelli maggiormente richiesti a NewYork, cioè Chris Lewis al sax tenore, Keith Brown al pianoforte e Eric Wheeler al contrabbasso. Da annotare anche nel ruolo di produttore, un altro batterista di Los Angeles come Willie Jones III, anch'egli amico di Sanders e con il quale ha da sempre condiviso la passione per lo swing e l'hard be-bop.
Si parte con un famoso standard, qui velatamente latinizzato da Sanders, Softly, as in a Morning Sunrise di Romberg-Hammerstein II, del 1928, brano scritto per l'operetta The New Moon. La batteria si presenta inizialmente in solitaria con una serie di rim-shot in controtempo, creando l'aspettativa per l'entrata degli altri strumenti. Il tema viene proposto dal sax rotondo di Lewis, sostenuto dalla griglia pianistica piena di colore di Brown. Dopo l'assolo di sax tocca al vibrafonista Wolf esprimersi con scioltezza e convinzione, precedendo anche la corsa in solitaria dello stesso Brown. La schematica e swingante trama strumentale del brano, dimostra che la caratteristica di una musica come questa parrebbe essere un “non evento” per definizione, una prova autoriale piacevole quanto condotta in stabile equilibrio formale.
Compton's Finest è un brano che Sanders ha dedicato al quartiere “angeliano” in cui ha vissuto, per altro un po' in apnea. Ma tra i suoi ricordi ci sono insegnanti, educatori, il basket e insomma tutto quello che si dimostra, alla lunga, salvabile e che ha ispirato il cuore di questa traccia. Tra Ellington e Mingus, trova una strada sicura che lavora molto sui temi, orecchiabili, persino ballabili a ben vedere. Il blues che si srotola a unghiate di walking bass e sequenze di assoli ben ripartite tra vibrafono, sax, piano e contrabbasso, squaderna davanti ai nostri occhi la poderosa tecnica strumentale dei sodali di Sander. E lui? Rimane volutamente in disparte, applicando le regole non scritte che caratterizzavano soprattutto le jazz band degli anni '50, in cui la componente ritmica restava fedele al suo posto e alla sua funzione, appunto, quella di equilibrare l'assetto e la ripartizione dei tempi d'esecuzione.
I Can't Help It è una canzone scritta da Stevie Wonder nel 1979 e donata a Michael Jackson che la fece uscire nello stesso anno con l'album Off the Wall. In questo frangente, il canto viene affidato alla voce adombrata della Horn che ci trasporta tra le braccia sensuali del soul. Ma quello che può sembrare inizialmente un semplice rifacimento finisce per diventare un modulo lunare per farci andare in orbita tra una sequenza di due assoli, entrambi rimarchevoli, di sax prima e di vibrafono poi. In particolar modo mi colpiscono i battenti di Wolf, straordinario su uno strumento caratteristicamente un po' ostico per i suoi riverberi che vanno sempre controllati, evitando le sovrapposizioni degli aloni sonori. Ascoltare un vibrafono da vicino può essere un'esperienza gratificante come in questo caso oppure diventare una tortura per i timpani se le onde sonore vibranti mal gestite tendono ad accumularsi, sovrapponendosi in modo disarmonico. Questo vale un po' per tutti gli strumenti ma per il vibrafono ancora di più...
Voyage è un brano del pianista Kenny Barron e presente nel vinile What If del 1986, ma allo stesso tempo era anche il titolo dell'omonimo lavoro di Stan Getz uscito nello stesso anno e che vedeva appunto Barron al pianoforte. L'unisono tra sax e vibrafono caratterizza l'inizio di questo pezzo, subito seguito dall'assolo di Brown in puro, perfetto stile da hard bopper. Anche Wolf ci si mette col solito impegno, trascinato dal veloce e perentorio swing della ritmica. Lewis esegue il suo miglior assolo dell'album, finalmente dimostrando la pienezza e la personalità del proprio suono. Inoltre, incredibile dictu, esce allo scoperto anche Sanders con molta, molta discrezione, lavorando soffice in un assolo particolarmente pulito. Finale di nuovo in sincrono tra sax e vibrafono.
Body and Soul è un altro famosissimo standard composto da Heyman, Sour, Eyton e Green nel 1930, ed è subito ballad in un'atmosfera che più classica non si può. Il sax si racchiude nei panni dello stile soffiato ed emotivo alla Ben Webster. Il suono lunare del vibrafono s'alterna al sax con un ottimo senso della misura. Anche Brown dialoga a tu per tu con Wolf, ben attenti entrambi a non pestarsi i piedi l'un l'altro. L'unico rilievo riguarda l'eccessiva austerità stilistica, forse troppo ossequiosa ai modelli del passato. Magari un piccolo scarto di lato avrebbe giovato maggiormente.
Monk's Dream rivela il suo autore originale nello stesso titolo ed è un brano che, nonostante compaia nell'album omonimo del 1963, cioè l'LP più venduto di Monk, fu composto almeno dieci anni prima. Si comincia con il sincrono tra vibrafono/sax e il piano che copre le pause, mentre emerge il memorabile tema malandrino del “monaco”. Il sax abbandona le vibrazioni languide alla Webster e dimostra qui più personalità, affiancato dalle veloci intrusioni di Wolf che cerca di offrire al brano quel sapore colmo di aferesi musicali e sincopi armoniche frequenti nell'ambito monkiano. Anche il pianoforte sembra partecipare alla ricerca di quegli accordi che Monk, in un leggendario colloquio con un'insegnante di armonia della Columbia University, considerava peraltro perfettamente idonei: “Suonerebbe qualcuno dei suoi strani accordi per la classe?” chiese il tutor, “Cosa intende con strani? Sono accordi perfettamente logici!!” rispose Thelonious, vedi qui. Apprezziamo l'ottimo assolo anche di Wheeler al contrabbasso, prima che il finale torni all'unisono descritto all'inizio.
In a Sentimental Mood è l'indimenticabile brano firmato da Ellington nel 1935, affidato alla voce duttile della Horn che qui ci mostra l'ampia gamma di estensioni e di varietà timbriche che il suo canto appena un po' velato possiede naturalmente. La traccia viene condotta come una tipica bossa nova. Di gran classe è il commento pianistico e l'assolo di Brown, veramente spet-ta-co-la-re! Direi senza dubbio il brano più accattivante dell'intero album. Chiude l'ultimo brano, SJB, dedicato a un amico che ha sempre incoraggiato l'attitudine musicale dell’autore. Infatti, si tratta della seconda composizione di Sanders presente nell'album, che ricorda un po' il groove funky di Hancock, ma in parte anche alcune suggestioni latineggianti alla Stan Getz, soprattutto per la notevole presenza scenica del sax.
La mano sciolta di un batterista non la si vede tanto e non solo per gli assoli che esegue. Quanta differenza si nota, infatti, con le percussioni temporalesche di un Blackey, di Jeff “Tain” Watts, di un Billy Cobham che affrontavano e affrontano i tamburi a testa bassa, pur con un bagaglio tecnico enorme. Pare quasi che Sanders si diletti a declinare il verbo considerato da molti obsoleto del batterista che tiene elegantemente il tempo, affidando la fioritura della musica agli altri musicisti. Nemmeno direi possa trattarsi di un rimodellamento formale, ma piuttosto di un ritorno alle origini dello swing. Sanders, almeno al suo esordio, pare non consideri irreversibile il mutamento del jazz contemporaneo, dedicandosi con puntigliosa accuratezza alla sostenibilità del ritmo. L'album che ne risulta è quanto di più gradevole ci sia consentito ascoltare in questi ultimi tempi, anche se evidentemente il vento del cambiamento pare non passare da queste parti.
Brandon Sanders
Compton's Finest
CD Savant 2023
Reperibile in streaming su Qobuz 24bit/96kHz e su Tidal qualità max fino a 24bit/192kHz