Non è un musicista avventato, Clément Janinet. Certamente però è coraggioso, perché qui, in questo Sokou!, non ha realizzato quelle manieristiche ibridazioni con la musica africana così spesso praticate da altri artisti occidentali. L'autore, violinista francese quarantenne nato a Les Lilas nell'Ile de France, è stato allievo del grande Didier Lockwood e in questo frangente si mette a confronto all'interno di un ensemble acustico di cinque elementi comprendente il musicista del Mali Adama Sidibé che suona un violino tipicamente tradizionale dell'Africa Occidentale, il sokou. Questo strumento, di storia antichissima, ha una corda sola, tesa in origine su una mezza zucca vuota – oggigiorno lignea – ricoperta da pelle di capra. Il suddetto violino, evidentemente più povero e ruspante rispetto al suo omologo europeo, non si presta a ricercate finezze d'intonazione e nemmeno a qualsivoglia autonoma combinazione armonica. Il suo suono asciutto e vagamente lamentoso, che assomiglia parzialmente a quello degli strumenti ad arco della tradizione giapponese, ci proietta però direttamente nel mondo della cultura musicale Fulani, Peuhl e Mandinka, cioè tre aspetti espressivi che interessano un vasto territorio geografico che va grosso modo dal Camerun, più a Est, fino a portarsi a Ovest appunto nel Mali e approdare poi all'oceano Atlantico attraverso il Senegal e le Guinee.
Il musicista africano Sidibé che accompagna il quartetto di Janinet è quasi una figura romantica tra i musicisti maliani – e non solo tra questi – perché tenta di evitare l'oblio del sokou mantenendone viva la presenza sonora. In questo album è coadiuvato da un gruppo che comprende oltre allo stesso Janinet al violino, anche Hugues Mayot ai clarinetti, Clément Petit al violoncello e Joachim Florent al contrabbasso. Sidibé, oltre che al sokou, interviene anche al canto con la partecipazione della leggendaria vocalist e figlia d'arte del Mali, Mah Damba. Appaiono più occasionalmente le percussioni di Amadou Daou e il lute di Badjè Tounkara. La musica che ne risulta ha l'aspetto tipicamente africano di una costruzione modale, sviluppata fondamentalmente su un'unica scala all'interno di una tonalità di base che muta raramente. L'andamento ipnotico dei brani possiede una propria vena ermetica, una diafana delicatezza che gioca a nascondersi tra ombre e sprazzi di luce e che è sembrata scorrere sempre uguale a sé stessa nei secoli. Il gruppo di Janinet s'intrufola in queste volute di umori musicali badando a non rovesciare la prospettiva gonfia di tradizione di queste tracce ma apportando con molta discrezione elementi rarefatti di quella musica reiterata e minimalista di stampo occidentale con cui questo ensemble, i tre quarti degli OURS, acronimo di Ornette Under the Repetitive Skies, si è già cimentato in lavori che hanno preceduto Sokou, a partire dal 2018. Ma più che ai dovuti riferimenti a Reich, Glass e Adams, l'autore francese cerca di risalire alle sorgenti di tutto questo, alla ricerca di quell'insieme di oligo-elementi che fanno parte della musica ripetitiva così com'è stata conosciuta in Occidente. L'Africa sembra dunque essere stata uno dei punti ideali di partenza di questa musica, oggi rivendicata dall'Occidente ma in origine piena di echi e rimembranze, dalle origini rituali e di misteriosi collegamenti con gli spiriti di Natura.
Attraverso le corde pizzicate degli archi, il sokou che intona il suo canto melodioso e il clarino che risponde antifonicamente alla voce di Sidibé, si apre l'album con Bougou, un brano tradizionale che porta il nome di una città della Costa D'Avorio, paese collocato al sud del Mali e con sbocco sull'oceano. Qualcosa, nella struttura ciclica di questa traccia, mi ha ricordato la musica della Third Ear Band, forse per l'intervento del sinuoso clarino di Mayot, per certi versi simile all'oboe dell'esoterico Pau Minns.
Black Sky è brano composto da Janinet che esordisce con un bel pizzicato degli strumenti ad arco, sei note che si ripetono ben rinforzate dallo schema anch'esso reiterante del contrabbasso. Un clarino basso fa sentire la sua voce calda e grave. Poi, attraverso un breve stacco ritmico, compare la timbrica drammatica di Mah Damba e il suono del sokou che alterna le sue note a quelle del canto.
Con Aduna il ritmo s'incrementa, aiutato anche dall'intervento delle percussioni di Amadou Daou e da un incalzante battito di mani che seguirà tutto lo svolgersi del brano. Ritorna la voce di Sidibé, dapprima in solitudine, poi seguita da un accompagnamento corale con un inizio pizzicato degli archi che porta con sé, con insolita assonanza, persino qualche lontano sapore di terre irlandesi.
Old Song non è un brano tradizionale, come ingannevolmente il titolo potrebbe far pensare. Si tratta invece di una composizione interamente scritta da Janinet ed è quella che più si avvicina, almeno inizialmente, con gli schemi reiteranti di Reich & C. In seguito, però, sembra fondersi con elementi che tengono conto del peso della tradizione africana. Bisogna notare come questo lavoro di “fusione”, almeno in questo brano, pare riuscire molto bene, nonostante il pezzo sia tra quelli meno facili da assimilare. Lungo assolo di souko con il costante pizzicato delle corde degli archi di sostegno e una sovrapposizione di suoni sovraincisi di clarino basso.
Kumble Madia è un altro traditional interpretato dall'intensa e grezza vocalità della Damba. Per un orecchio educato all'occidentale come il nostro, questo canto può apparire a tratti fuori contesto e non intonato, ma quello che conta, in questo caso, è la profondità “terrena” dell'interpretazione, in pieno contesto tradizionale. Compare, in questo brano, l'intervento aggiunto di uno strumento a corda suonato da Badje Tounkara.
Fanga è un ulteriore composizione di Janinet ed è costruita sull'intreccio di due violini, quello di Sidibé e quello dell'autore stesso. Nonostante l'interessante confronto integrativo dei due strumenti, il brano è tirato un po' troppo per le lunghe. Anche il pezzo seguente, Farka, è sempre opera di Janinet ma si presenta in modo completamente differente, attraversato com'è dalla voce potente dalla stessa Damba. Tornano a farsi sentire anche le aromatiche percussioni di Daou e si avverte maggiormente l’avvolgenza sonora del contrabbasso.
Ciel è un intermezzo strumentale in cui una base condotta inizialmente solo dal quartetto d'archi ospita, nella seconda parte, un breve assolo di Sidibé. Per una curiosa situazione, che non ho compreso se voluta o accidentale ma parrebbe più idoneo sostenere quest'ultima ipotesi, in tutti gli streaming che abitualmente ascolto il brano pare interrompersi troppo bruscamente tenendo fede al minutaggio indicato a margine, cioè 1' e 37''.
Fulbe è un pezzo interamente attribuito a Sidibé che si apre con il souko e il canto sovrapposto dell'autore. Forse uno degli accompagnamenti migliori che appaiono nell'album, con un bell'assolo di clarinetto e una perdurante trama di archi e percussioni in sottofondo.
Chiude Hanami, inizialmente un dialogo rigorosamente a tre, con Sidibé in assolo e due archi quasi raddoppiati in accompagnamento. Entrano poi un po' tutti gli strumenti per un finale che va a tirare di nuovo la giacchetta della Third Ear Band. Sono relazioni casuali, me ne rendo conto, sicuramente metafisiche, ma non si può fare a meno di notarle.
La regola numero uno per avvicinare questo album è quella, non dico di amare spassionatamente, ma almeno di saper apprezzare la World Music, orrendo neologismo semplificativo ma tanto comodo da utilizzare, per potersi calare nelle atmosfere tradizionali, sempre un po' animiste, che in questo caso ci rimandano all'Africa Occidentale. Del resto, l'interesse che dagli anni '70 in poi la musica modale ha avuto in Europa e negli USA, sia nell'ambito più classico e accademico e sia nel mondo del jazz e del folk, ha consentito una sorta di riavvicinamento culturale della musica moderna con gli impianti tradizionali africani e orientali. In questo caso Janinet compie un'operazione “a rischio”, che in mani sbagliate avrebbe potuto essere tacciata di snobismo culturale. Invece ha dato fiato ad Adama Sibidè, eroe per un sol giorno che crede ancora nelle potenzialità espressive di uno strumento quasi dimenticato. Infine, come un'immagine allo specchio, Janinet riflette l'oggi nella tradizione, realizzando un circuito a tutto tondo in cui la modernità consuma la sua parabola dirompente alla ricerca delle proprie origini. Il kyklos si chiude, quindi, tornando là dove tutto è iniziato.
Clément Janinet & Adama Sidibeé
Sokou!
CD Helico Music 2023
Reperibile in streaming su Qobuz 16bit/44kHz e Tidal 16bit/44kHz