“Togli questa m...a e metti i Creedence!”. In una sorta di anticipazione dell'intemperanza del grande Lebowski verso gli Eagles, questa era l'affermazione preferita d'un amico, all'inizio degli anni '80, quando qualcuno cercava di attirare la sua attenzione con dei dischi di esangui gruppetti pop. Già, i Creedence... Solo a pronunciare per intero il loro nome, Creedence Clearwater Revival, con quella sequenza di sillabe che si arrotolava in bocca alla stregua d'una giaculatoria pagana, sembrava di ruminare una sorta di formula magica, la strada iniziatica verso quella che avrebbe dovuto essere la via regia al rock. E poi c'era un cantante con la voce piena di chiodi roventi, John Fogerty, le chitarre aspre e ficcanti dello stesso John e del fratello Tom, morto nel 1990, il basso contundente di Stu Cook, la batteria di Douglas Clifford, con quelle rullate elementari così necessarie alla scarna economia musicale del gruppo.
Dalla periferia Est della baia di San Francisco, in una località detta El Cerrito, più o meno nel 1964, questa band inizia una breve ma intensa avventura, raccogliendo un bouquet di profumi classicamente americani del periodo. Si va dagli aromi dei retrobottega delle drogherie, laddove si trovava spazio per far le prove, agli immaginati odori acquitrinosi della Louisiana, quel Bajou a cui i CCR s'ispiravano senza forse averlo mai visto. Non ha probabilmente avuto un lessico molto elaborato, questa band, non ce n'era bisogno. Avevano compreso come il rock fosse necessariamente musica semplice, pochi accordi, preferibilmente in maggiore, da suonare a forte volume. Rock come sorgente d'energia, una demiurgica scommessa creativa dal blues del delta del Mississippi fino a James Brown e Little Richard, creando una musica scolpita nella pietra, suoni sporchi ma sempre ben identificabili e comprensibili, imbastiti in una trama di micidiale orecchiabilità e purezza tutta propria. E dire che nel medesimo tempo e nella stessa California la musica di allora aveva preso tutt'altra piega, affiliandosi all'ondata floreale della cultura hippie che parlava un linguaggio completamente diverso, pieno di orientalismi e colori caleidoscopici.
Chiunque abbia vissuto quegli anni e amato i CCR, ricorderà la loro scommessa vincente con tre dischi nuovi in un anno, dal '69 al '70 e cioè Green River, Willy & the Poor Boys – ore e ore trascorse in contemplazione di quella bella copertina – e Cosmo's Factory. Poi l'inizio della parabola discendente ed eravamo ancora nel 1970 con Pendulum, album abbondantemente strapazzato dalla critica ma amatissimo dai fan – e io ero tra quelli. La fine, più malinconica che mai per l'abbandono di Tom Fogerty, avverrà nel '72, con un disco in trio che nessuno ricorda nemmeno più e cioè Mardi Gras.
Invece, dopo cinquantadue anni, riemerge dagli archivi un leggendario live concert tenuto a Londra alla Royal Albert Hall il 14 aprile del 1970, un nastro multitraccia restaurato e ben mixato dalla coppia Giles Martin e dal tecnico del suono Sam Okell. I Creedence di allora erano sul tetto del mondo, rappresentando infatti per il pubblico europeo di quegli anni i portatori più significativi della fiaccola della musica americana dove blues, shuffle, rock 'n roll e country rock si mescolavano con spontaneistico vigore offrendo squarci di cruda sensualità, attraverso il loro essenziale e ruvido impasto ritmico. Cosa dobbiamo aspettarci, oggi, da questa riesumazione del loro concerto londinese? Ovviamente i CCR non erano i Grateful Dead, non è mai stata conforme a questa band l'improvvisazione. Gli schemi seguiti erano quelli rigidi riferiti ai brani presenti su disco, a parte qualcosina in più nell'ultimo brano presente in scaletta. Ma non era certo facile mantenere viva l'elettricità che invece trasuda da questa incisione. La band si butta a testa bassa in pasto al pubblico non tradendo le aspettative e contribuendo, col senno di poi, al mantenimento della loro fama.
At the Royal Albert Hall esce in concomitanza con un film sulla storia della band presentato proprio dalla voce recitante del citato Big Lebonski, cioè l'attore Jeff Bridges. I dodici brani talora sfumano l’uno nell'altro senza soluzione di continuità, dimostrando l'incredibile tenuta vocale di John Fogerty e la continua tensione muscolare del resto della band, che non molla il colpo nemmeno per un nanosecondo. S'inizia subito a fare sul serio col primo brano della sequenza, Born on the Bayou, tratto da Bayou Country del 1969. Un mid-tempo con un ossessivo arpeggio di chitarra a scandire la geometria del pezzo e la voce porosa del band leader che raschia i muri col suo canto pieno di spettri. Quasi un moderno sabba, ipnotico e tenebroso a raccontare di voodoo e vapori di foglie morte.
Dall'album Green River, sempre del 1969, viene riproposto l'omonimo brano, appena meno martellante del precedente, con la chitarra che graffia, urtica i sensi con i suoi riff solforosi. Sempre dallo stesso album proviene anche Tombstone Shadow, un rock blues magnetico con la voce di Fogerty che strapazza le vocali della parola “shadow”. Non una nota in più del necessario, in questo brano. Il dono della sintesi, il lavorare su ciò che è veramente importante nell'economia di questa musica, è stato uno dei punti di forza della band, quasi una ripresa dell'antico precetto delfico nulla di troppo. Anche qui la chitarra solista dello stesso John, moderatamente distorta, graffia come un puma, forse quasi come la sua voce, mentre l'altra chitarra, quella del fratello Tom, tiene un ritmo timbricamente pulito e preciso.
Travelling Band viene da Cosmo's Factory, del 1970, e va detto che questo pezzo costò una causa milionaria allo stesso John Fogerty per l'accusa di plagio mossagli da Little Richard. Al di là di tutto, effettivamente, la voce del cantante dei Creedence s'avvicina molto all'impostazione belluina del Piccolo Riccardo, anche se il brano viene tirato per il collo con una veemenza così acida che poteva essere solo opera di una band in trance performativa come questa.
Fortunate Son, da Willy and the Poor Boys, 1969, inizia come una danza tribale con un testo antimilitarista attorno al totem del rock e i quattro, trascinati dalla foga dell'esecuzione, tendono ad accelerare in qualche punto del brano, che fatica a contenersi nelle sue normali battute ritmiche.
Ancora da Green River viene preso ed eseguito Commotion, forse il brano più debole della raccolta, nonostante il tumultuoso finale della batteria.
Secondariamente è la volta di uno tra i pezzi migliori dei Creedence, che però non è interamente farina del loro sacco. Midnight Special è infatti una prisoner song, editata per la prima volta negli anni ‘20 e passata di mano in mano a numerosi bluesman fino a fiorire di una luce tutta sua con la rivisitazione di John Fogerty. La struttura blues fu mantenuta grosso modo nella sequenza degli accordi ma la componente venne arricchita dai suoni grezzi dei Creedence per comparire nell'album Willy and the Poor Boys. La band, in questo frangente, mantiene l'autocontrollo necessario per poterne offrire una versione scintillante, quasi sovrapponibile a quella presente su disco.
Bad Moon Rising appartiene al vinile Green River ed è un trascinante rockabilly, reso ritmicamente implacabile dalla precisione geometrica della struttura ritmica basso più batteria. Fogerty s'avvicina un po' troppo al microfono e, in parte, il cantato appare in evidente distorsione, mentre le chitarre tramano un'armatura chitinosa, un muro invalicabile di note intricate e scontrose.
Proud Mary, banco di prova per tutti i sedicenti chitarristi in erba e altresì di molte neoformazioni cantinare ai loro esordi, proviene da Bayou Country. Un classico del rock, con quell'incipit inconfondibile tutto a barrée discendenti lungo il manico della chitarra. Ne ricordo anche una bella versione R&B di Ike e Tina Turner, pubblicata due anni dopo l'originale.
The Night Time is the Right Time era in origine un blues scritto nel 1937 da Roosevelt Sykes ma John Fogerty, quando lo pubblicò su Green River, s'ispirò alla versione più gospel offerta da Ray Charles nel 1958. Il brano è tirato con i coretti e le chitarre ruggenti, un pieno di batteria che s'accanisce sui piatti, insomma un gran bel bluesaccio sporco come si deve, con tanto di effetto Larsen sul finale.
Anche Good Golly Miss Molly è un classico standard rock, portato al successo inizialmente da Little Richard nel 1958 e ripreso poi in Bayou Country dai CCR. Un tipico rock 'n roll con un'intrigantissima chitarra che costituisce un po' il controcanto alla sempre incazzosa voce del cantante, qui effettivamente molto vicina alle timbriche esplosive di Richard.
Per finire, dulcis in fundo, un brano di oltre otto minuti, Keep on Chooglin', da Bayou Country, costruito tutto su un accordo unico, come facevano i più puri bluesman della Louisiana seduti fuori dalle loro case di legno in riva al fiume. Qui si sente il poliedrico John Fogerty all'armonica a bocca e alla chitarra solista che finalmente si distende con tutta la band in una boccata d'improvvisazione, sufficiente a liberare gli ultimi spiccioli di energia e di sudore disponibili.
Non può che far piacere, dopo tanti anni, ritornare alle radici con tutte le rimembranze dell'età giovanile con cui l'ascolto di questo disco giocoforza s'accompagna. Bisogna reggere la nudità quasi provocatoria di una musica come questa, senza orchestrazioni aggiunte né coriste alcune, priva di elettronica ma vissuta all'osso con quattro strumenti più la voce e l'occasionale armonica a bocca. Tenendo presente che i CCR non erano altro che quattro ragazzi di buona volontà, senza specifica istruzione musicale ma con le orecchie piene di suoni che provenivano dalla notte dell'America, oggi possiamo dire, a distanza di oltre cinquant'anni, che musica come questa e di tale qualità si è fatta sempre più rara. Ma viviamo in un'epoca di passioni tristi, come diceva il buon Spinoza. E in quest'epoca c'è rimasto poco posto per quella partecipazione carica di emozione intransigente che avevano i CCR. E dunque, “Togli quella m...a, amico, e metti i Creedence”.
Creedence Clearwater Revival
At The Royal Albert Hall
CD e vinile Craft Recordings / Universal
Reperibile in streaming su Qobuz 24bit/96kHz e Tidal qualità Master MQA