Alla seconda parte di questo articolo
Dopo aver introdotto le virtù del crossover elettronico analogico M2Tech Mitchell qui e aver dato una sbirciata a come è fatto e funziona qui, acclarata la sua importanza e in attesa di ulteriori prove sul campo parliamo oggi con il suo progettista, l’Ing. Marco Manunta della M2Tech. A lui rivolgo subito una domanda tesa a svelare ulteriormente “la grande truffa” dei crossover passivi, un enorme “male necessario” che però può essere evitato grazie appunto a un approccio al problema unico come quello del Mitchell.
Domanda: Quali sono gli svantaggi di un crossover passivo?
Marco Manunta: Il più evidente, secondo me, è l’interazione tra i componenti delle celle di filtraggio e l’impedenza dei vari altoparlanti. Essa determina un’alterazione della risposta dell’altoparlante filtrato rispetto alla curva “target” e richiede tutta una serie di interventi correttivi da parte del progettista capace con celle di linearizzazione e attente modifiche della cella di filtraggio stessa, che complicano la struttura del filtro e ne aumentano il costo, spesso senza realmente raggiungere i risultati attesi. Progettare un filtro su un carico resistivo è tutto sommato semplice, se il carico è reattivo può diventare dannatamente difficile o addirittura impossibile.
C’è poi da considerare il fatto che il filtro crossover è una sanguisuga di potenza. Prima di tutto perché uno dei suoi compiti è quello di equalizzare il livello di emissione dei vari driver nella rispettiva gamma di lavoro. E l’unico modo in cui un crossover passivo può farlo è attenuando quelli più efficienti, cioè dissipando in calore parte della potenza che arriva loro. A questo si deve aggiungere il fatto che tutti i componenti passivi usati, anche le induttanze e finanche i condensatori, hanno delle resistenze parassite che dissipano potenza. Si pensi a un’induttanza con una resistenza parassita di 0,5 ohm in serie a una coppia di woofer con Re – NdR | Resistenza elettrica della bobina di altoparlante misurata in corrente continua – di 6 ohm in parallelo. In essa si perde il 4% della potenza inviata al woofer. Se il woofer è tagliato con una cella del terzo ordine è facile arrivare a perdere nel filtro del woofer fino al 10% della potenza inviata. Se poi, per far suonare il tweeter a pari livello del woofer lo dobbiamo attenuare di 6 dB, allora stiamo anche buttando via la metà della potenza inviata al tweeter. La cosa potrebbe non interessare a chi possiede un ampli da 250 watt per canale, ma chi ama i monotriodi single-ended da 3,5 watt o i classe A a stato solido da 30 watt dovrebbe riflettere… Naturalmente, le celle correttive prima menzionate aggravano solo il problema.
Non posso poi non citare l’effetto della presenza di elementi reattivi e dissipativi – parassiti o volutamente inseriti – sulla risposta impulsiva del diffusore, specialmente in gamma bassa, ma non solo. Gli altoparlanti, una volta cessato lo stimolo che li ha fatti muovere, devono potersi fermare nel minor tempo possibile, senza oscillare. Il tempo minimo in cui un driver si ferma è legato ai parametri del driver stesso: resistenza e induttanza della bobina, massa mobile e cedevolezza delle sospensioni. Più si aumenta la resistenza e/o l’induttanza dell’altoparlante, a parità di altri parametri, più lo si rallenta. Non solo: può capitare che il diaframma, invece di raggiungere la sua posizione di riposo rallentando fino a toccarla senza superarla – troppa grazia Sant’Antonio – la raggiunga con una certa velocità residua e quindi la superi, per poi invertire la direzione del moto e ripassarci sopra, anche più volte. In questo caso l’altoparlante si comporta come un pendolo smorzato. Questo fenomeno può essere causato o accentuato dagli elementi reattivi “visti” dall’altoparlante, ai quali cede parte della sua energia sotto forma di corrente che gli viene parzialmente restituita in un fenomeno chiamato risonanza. Un diaframma che non si ferma immediatamente quando cessa lo stimolo musicale “macchierà” il suono iniettando componenti frequenziali non presenti nel messaggio originale.
Termino citando il fatto che induttanze e condensatori distorcono a causa dei fenomeni di saturazione dei nuclei e dei dielettrici, e sono anche sensibili alle vibrazioni generate dallo stesso diffusore o da fattori esogeni che introducono rumore e altra distorsione.
In poche parole: un crossover passivo non permette di realizzare tagli precisi, dissipa inutilmente preziosa potenza, influenza negativamente la risposta impulsiva di un diffusore e può distorcere se non opportunamente dimensionato e realizzato.
Domanda: Quali sono, se ce ne sono, i vantaggi di un crossover passivo? Detto in altri termini, cosa ha di più, se lo ha, un filtro passivo? O è solo una questione di economia costruttiva?
Manunta: Sicuramente un crossover passivo è più economico da produrre che non un crossover elettronico attivo, anche se si usano componenti di qualità stellare. Inoltre, il crossover passivo permette di pilotare il diffusore con un solo amplificatore stereo, mente un crossover attivo richiede un finale di potenza stereo per ciascun driver nel diffusore. Di sicuro un impianto configurato per la multiamplificazione attiva può essere fino a tre volte più costoso di un impianto tradizionale a parità di diffusore, sorgenti e preamplificatore. Inoltre, non si dimentichi che non tutti i diffusori sono predisposti per la multiamplificazione. Volendo multiamplificare un diffusore con crossover interno non bypassabile bisogna entrare nell’ordine di idee di modificarlo, e questa è una cosa che non tutti sono disposti a fare, comprensibilmente.
Domanda: Un crossover passivo introduce quindi alterazioni di risposta, per esempio a causa della distanza di valori e comportamento fra induttori ideali e reali, questi ultimi spesso con tolleranze estremamente ampie, pensiamo anche solo a un misero – apparentemente – 5%, quindi per la presenza di componenti resistive assolutamente imprevedibili. Gli svantaggi del crossover a componenti passivi cosa comportano “a orecchio”?
Manunta: La variazione dei valori dei componenti passivi può provocare alterazioni dei livelli di emissione dei singoli driver rispetto ai valori desiderati, nonché incroci imperfetti. Ma, a mio parere, il fenomeno più evidente è quello della caratterizzazione della risposta impulsiva generale: il diffusore tende a suonare come vuole il filtro e non come vuole la musica. Se poi si portano i componenti del filtro a saturare, si ha un fenomeno simile a quello del clipping di un amplificatore, con un livellamento della dinamica. A volte l’utente percepisce il fenomeno e ne dà la colpa all’amplificatore, sostituendolo con uno di maggiore potenza, ma così facendo peggiora la situazione!
Domanda: Quali sono invece i vantaggi di un crossover analogico attivo? Nel manuale li hai accennati e li ho riportati, puoi ora esploderli?
Manunta: Premesso che, correttamente, tu parli di un crossover attivo analogico, esporrò i vantaggi del crossover attivo in generale, spiegando più avanti perché in M2Tech abbiamo scelto la strada del crossover attivo analogico in contrapposizione a quello digitale.
Un crossover attivo permette innanzitutto di equalizzare i livelli di emissione dei vari driver – e dei vari amplificatori utilizzati, che possono essere di differente modello per ciascuna via – semplicemente regolando un livello a monte dei finali. Dunque, ciascun finale potrà inviare tutta la sua potenza all’altoparlante a cui è collegato, senza sprechi. La cosa è molto utile quando si usano amplificatori di potenza ridotta e costo elevato.
Secondo: le celle di filtraggio di un crossover attivo sono insensibili all’impedenza degli altoparlanti. Esse “vedono” al più l’impedenza di ingresso degli amplificatori, che è generalmente resistiva, e comunque sono bufferizzate. Quindi, è possibile realizzare curve di filtraggio perfettamente aderenti alle curve “target” senza circuiti particolarmente complessi, curve che non variano al variare degli altoparlanti usati – dispersione dei parametri – o degli amplificatori scelti. Se cambio il finale del midrange dovrò semplicemente aggiustare il livello del filtro della gamma media.
Inoltre, grazie al fatto che ciascun driver “vede” l’impedenza di uscita dell’amplificatore che lo pilota, senza “intermediazione” di un filtro passivo, otterremo la miglior risposta impulsiva possibile, con un suono più nitido e trasparente.
Un altro fattore, spesso trascurato, è quello dell’allineamento in fase dei vari driver di un diffusore: con un crossover passivo questo obiettivo è sempre difficile da ottenere, spesso si deve sagomare il mobile del diffusore per allineare i centri di emissione dei vari altoparlanti. Con un crossover attivo adeguato non tutti lo permettono – l’allineamento di emissione può essere ottenuto elettronicamente.
Domanda: A parte il costo, il crossover analogico attivo ha eventuali svantaggi?
Manunta: La maggior parte dei crossover attivi analogici sul mercato hanno tre grandi limiti:
- la forma dei filtri è fissa, cioè non è possibile scegliere il tipo di filtro, ma solo la sua frequenza di taglio e la pendenza
- gli incroci sono pure fissi, cioè non posso tagliare il woofer a una frequenza differente da quella del passa-alto del midrange, per esempio
- e le prestazioni audio non sono quasi mai adeguate a quelle degli altri componenti della catena in cui vengono inseriti, non dimentichiamo che in genere un impianto multiamplificato è un impianto Hi-End molto costoso e si pretende che tutti gli anelli della sua catena suonino al di sopra di ogni sospetto
Non dimentichiamo che la maggior parte dei crossover attivi analogici in circolazione sono prodotti per il public address, dove conta solo la pressione sonora e nessuno si lamenta della timbrica o del soffio di fondo.
Questa “rigidità” strutturale e i limiti prestazionali sono in parte attenuati in certi modelli Hi-End di costo elevatissimo, ma certamente l’utente che esige la massima libertà di progettazione dei filtri sceglierà un crossover attivo digitale, che però ha, a nostro vedere, limiti forse ancora maggiori di un buon crossover attivo analogico. Oppure il Mitchell...
Domanda: Ogni via del Mitchell è impostabile anche in termini di funzione di Gain, il guadagno. A parte dover intervenire tutte le volte sui singoli settaggi, questo significa che il Mitchell potrebbe essere usato direttamente come pre, per pilotare quindi dei finali?
Manunta: In teoria, si, ma la manovra non è banale perché il guadagno può essere modificato solo tramite il software di configurazione che gira su un PC che dovrebbe quindi sempre essere collegato al crossover. Lasciamo fare al preamplificatore il suo lavoro...
Domanda: A quale livello di volume/gain consigli di settare inizialmente il Mitchell per usarlo in questo caso in modalità pre? Questo per essere sicuri di partire da un volume che non danneggi i diffusori, ovviamente, dato che il suo range di intervento è considerevole, da -111 dB a +30 dB.
Manunta: Se proprio si deve, non supererei i -40 dB all’accensione ma, ripeto, meglio usare un preamplificatore.
Domanda: Citando il manuale, “i crossover elettronici digitali sono generalmente estremamente versatili poiché il loro software di configurazione consente di modellare le curve di cut-off con grande precisione. D'altra parte, devono convertire il suono da analogico a digitale prima di elaborarlo e riconvertire i segnali elaborati da digitale ad analogico. Questo è spesso indesiderato poiché le conversioni condizionano pesantemente il suono e di solito gli impianti finiscono per suonare come i convertitori del crossover piuttosto che come i loro componenti analogici di alta qualità.” Quindi è questo il terribile collo di bottiglia: la qualità di TUTTO il nostro impianto passa da quella SCARSA del nostro crossover digitale. Possibile che questi apparecchi siano così considerati semplicemente perché arrivano dal settore pro?
Manunta: No, ci sono importanti questioni di costo. È possibile realizzare un crossover attivo digitale senza compromessi associando ad un processore in grado di gestire segnali a risoluzione molto alta un ADC e due/tre DAC di altissima qualità. Ma provate voi a mettere due o tre DAC del costo di un dCS o un MSB con un processore ad altissime prestazioni e un ADC che dovrà per forza di cose costare ancora più di uno dei DAC… Anche considerando economie di scala dovute all’uso di un solo cabinet anziché cinque, non credo che un siffatto crossover digitale potrebbe costare al pubblico meno di 50-60.000 euro. Che mercato ci sarebbe? Quando si compra un crossover attivo digitale pagandolo 800 euro, che qualità potranno mai avere i convertitori?
Quando discuto del Mitchell con gli appassionati molti contestano quanto sopra dicendo che perlomeno l’ADC non serve perché entrano nel crossover digitale direttamente sull’ingresso S/PDIF. Giusto, ma così facendo limitano la risoluzione ascoltabile a 192 kHz, perché l’S/PDIF e l’AES/EBU non superano questa frequenza di campionamento.
E che dire dei file DSD? Non è possibile processare il DSD se non convertendolo in PCM e poi riconvertendolo in DSD: un depauperamento da brividi.
E se l’impianto ha un front-end analogico di altissima qualità? Che senso ha convertirne il segnale in digitale e poi di nuovo in analogico?
In ogni caso, non vedo oggi in giro alcun crossover attivo digitale consumer in grado di processare segnali PCM oltre i 192 kHz, tra l’altro dovrebbe essere dotato di ingressi e uscite digitali I2S – oltre naturalmente, di convertitori in grado di trattare frequenze di campionamento superiori a 192 kHz.
Dunque: in impianti con front-end analogico o misto, che riproducono file PCM a risoluzione superiore a 192 kHz e file DSD la scelta di un ottimo crossover attivo analogico è obbligata.
Domanda: Quando scrivi sempre nel manuale che l’uso corretto del Mitchell “deriva dalla teoria dei filtri, che non dettagliamo in quanto non rientra nello scopo di questo manuale ed è considerata già nota all'utente”, che manuale appunto di teoria dei filtri consiglieresti a noi “idiofili” per impadronirsi dei fondamentali in materia?
Manunta: Io ho studiato i filtri all’università e prima ancora alle scuole superiori, ma ho appreso molto anche leggendo gli ottimi articoli scritti in passato da giornalisti del settore di chiara fama come, per citarne solo alcuni, Fabrizio Montanucci e Giampiero Matarazzo. Andrei anche a ricercare i meravigliosi articoli scritti per Suono da colui che considero un mio grande maestro, Bartolomeo Aloia. Se poi ci si vuole impegnare a livello più “analitico”, consiglierei un testo quale Analog Electronic Filters di Dimopoulos edito da Springer – NdR | In download integrale in PDF qui – oppure in italiano I filtri attivi di Grilloni stampato dalla Hoepli. Quest’ultimo presuppone una conoscenza generale della teoria dei filtri. Comunque si trova tantissimo su Internet.
Domanda: Quando nel manuale ho letto dei comandi in codice, quando ho realizzato che avrei potuto/dovuto programmare il Mitchell, mi sono scorato: dai tempi dello ZX Spectrum Sinclair ho capito che la programmazione non faceva per me… Poi, come un raggio di sole dopo la notte più buia, sono arrivato alla parte del manuale dove si parla del Mitchell Configurator, il programma già scritto. Quindi, se ho capito bene, con un PC volendo si può comandare il Mitchell programmandolo, oppure si può usare direttamente il tuo programma Mitchell Configurator: giusto? La seconda opzione permette già di per sé il controllo completo delle funzionalità del Mitchell, non ce ne sono insomma altre eventualmente ottenibili con una programmazione ulteriore: corretto?
Manunta: Io a sedici anni programmavo lo Specftrum in Assembler… – sorride – La risposta però è: quasi… Usando il linguaggio da noi sviluppato è possibile “spremere” un tantino in più di flessibilità nella sagomatura dei filtri, ma si tratta veramente di situazioni estremamente improbabili...
Domanda: Nel manuale dici che “l'utilizzo del software di configurazione, seppure abbastanza semplice, è oggetto di un manuale specifico”, qual è o dov’è tale manuale? È nei download del sito M2Tech?
Manunta: Lo trovate appunto qui.
Domanda: Il Mitchell consente di raggiungere pendenze di tagli molto elevate. Perché queste, anche solo di III e IV ordine, non sono consigliate con i componenti passivi e quali libertà consentono invece ai progettisti con il Mitchell?
Manunta: In generale, le pendenze elevate non sono mai consigliabili nei filtri analogici perché la risposta impulsiva dei filtri ha “code” temporali piuttosto lunghe e oscillanti e le rotazioni di fase si propagano profondamente nella banda passante. Detto questo, con i crossover passivi c’è l’aggravante che la dispersione dei parametri dei componenti, le loro non linearità e le loro componenti dissipative parassite tendono ad avere un effetto via via crescente con l’ordine del filtro sul funzionamento del diffusore, vanificando gli eventuali vantaggi di un filtro a pendenza elevata. Ciò non accade con il Mitchell.
Domanda: Dalle prove fatte con i prototipi di Mitchell, dalla sua messa a punto, puoi tirare fuori dal tuo cilindro qualche “trucco” o consiglio per il suo miglior uso?
Manunta: Come accennato prima, ritengo che l’operazione di equalizzazione dei livelli sia uno dei passi più delicati: verificare se sia meglio dare 1 dB in più a un altoparlante un po’ più sordo o 1 dB in meno a quello più “chiacchierone”. Inoltre, quando un incrocio sembra “non funzionare”, attivare le celle passa-tutto delle due vie adiacenti e lavorare con la fase di emissione: spesso picchi e buchi nei dintorni della frequenza di incrocio sono dovuti a rotazioni di fase indesiderate e impreviste.
Spesso è possibile usare filtri di pendenze diverse per incrociare due altoparlanti. Vale la pena verificare se suoni meglio un 12 dB/ott. o un 18 dB/ott. Magari il primo realizza una transizione più dolce e meno udibile, oppure scopriamo che il secondo attenua meglio un comportamento fastidioso del driver in banda di transizione…
Vale anche la pena provare diverse configurazioni di filtri: laddove la teoria ci dice che è meglio incrociare a 3 dB con filtri di Butterworth, potremmo scoprire che i nostri altoparlanti danno il meglio con un incrocio più aperto del tipo di Bessel o Linkwitz-Riley…
Sono tutte prove che con il Mitchell richiedono pochi secondi, con un filtro passivo servono ore.
A proposito inoltre di picchi e risonanze indesiderate, il cosiddetto break-up: a volte pensiamo che filtrando a 18 dB/ott. un woofer un’ottava sotto la sua frequenza principale di break-up sia sufficiente a silenziare il relativo picco: non è quasi mai così, seppure attenuato il picco di risonanza sarà udibile. Allora è meglio affidarsi a uno dei filtri notch forniti dal Mitchell, che va a silenziare proprio la strettissima banda di frequenze a cavallo della frequenza di break-up.
Domanda: Quando nel 2020 hai presentato il Mitchell mi è sembrato subito un prodotto unico, molto intelligente, che insomma andasse a coprire un “buco di mercato”. Nel frattempo, sai se siano arrivati o siano stati presentati dei competitor?
Manunta: Che mi risulti, no.
Domanda: Se l’amplificatore che pilota una coppia di diffusori va in saturazione sulle basse frequenze, dove c’è più richiesta/emissione di potenza, cosa che succede molto più frequentemente di quanto si possa immaginare, l’intermodulazione che ne deriva interesserà tutta la banda audio da riprodurre, comprese le medie e le alte frequenze, con distorsioni sicuramente udibili, come quando, anche senza saperne il perché, abbassiamo istintivamente il volume. Questo fenomeno si riduce con la multiamplificazione, con inoltre il vantaggio accessorio di poter anche utilizzare amplificatori di potenza inferiore, notoriamente “meglio suonanti”. Ma utilizzando più amplificatori non si va teoricamente a perdere molto della coerenza di fase?
Manunta: In effetti, sì. Se utilizziamo amplificatori diversi per le varie vie, ciascuno con la sua timbrica, con il suo ritardo di gruppo e con la propria risposta dinamica, allora il rischio è uno scollamento sonoro tra le varie vie. Ma è lo stesso rischio che si corre quando, in un multiwiring, usiamo un diverso modello di cavo di potenza per ciascuna via, magari ognuno di diversa lunghezza… L’ideale sarebbe usare finali di potenza tutti uguali e cavi di potenza tutti uguali e di uguale lunghezza.
Domanda: Una domanda che solleva una questione scabrosa. Esistono diffusori anche da decine se non centinaia di migliaia di euro. Se una multiamplificazione effettuata con un crossover elettronico analogico esterno offre obiettivamente così tanti vantaggi, perché i loro costruttori non la prevedono, offrendola magari anche solo come “retrofit”, in aftermarket?
Manunta: In effetti per alcuni modelli è così, basti pensare ai monitor JBL di grandi dimensioni o a certi prodotti Avalon col crossover esterno al diffusore. Altri costruttori propongono diffusori e crossover elettronico dedicato, Linn tra tutti. La ritrosia dei produttori a permettere un facile multiamping attivo con crossover qualunque è dovuta alla perdita di controllo sul modo in cui le vie del diffusore incrociano quando il crossover non è cucito su misura per il diffusore: con un crossover passivo o uno attivo dedicato questo problema non si pone. Viceversa, se un cliente usa un crossover qualunque e non ottiene i risultati sonori sperati, allora il rischio è che dia la colpa al diffusore: un danno di immagine per il costruttore.
Diverso è il discorso per chi usa diffusori predisposti per la multiamplificazione o per gli autocostruttori. Per questi ultimi, in particolare, un buon crossover attivo può paradossalmente rappresentate un risparmio rispetto alla realizzazione di un crossover passivo di qualità, perché ogni prova o tentativo che inevitabilmente dovrà effettuare sui suoi prototipi alla ricerca del suono ottimale comporterà costi rilevanti se i componenti sono di qualità. Basti pensare a quanto costano i componenti Jensen, Mundorf o Duelund, solo per nominare tre marchi molto apprezzati. Inoltre, vuoi mettere la possibilità di applicare una configurazione, sentirla e poi modificarla in tempo reale, togliendo e riapplicando ogni singola parte della configurazione per ascoltare ciascuna modifica in un attimo? Poi, naturalmente, l’appassionato può decidere di realizzare, per la versione definitiva del diffusore, un crossover passivo che realizzi, per quanto possibile, gli stessi tagli di quello attivo, con la sicurezza di avere un riferimento sicuro, visto che le configurazioni del Mitchell possono essere salvate sull’HD del computer e richiamate e ricaricate sul crossover in qualunque momento. Il Mitchell ovviamente mantiene in memoria l’ultima configurazione caricata, perché deve poter essere utilizzato negli ascolti giornalieri senza bisogno di collegarlo al PC.
Fine terza parte | Continua...
Caratteristiche dichiarate dal produttore
Ingressi: stereo single-ended RCA, stereo bilanciato AES/EBU XLR, trigger jack 3,5mm
Uscite: 3 x stereo single-ended RCA, composito stereo bilanciato 7P XLR, 3 x stereo bilanciato da adattatori di serie
Frequenze di taglio: da 50Hz a 15000Hz
Piste: passa basso e passa alto da 6dB/ottava a 30dB/ottava, passa banda simmetrico da 6-6dB/ottava a 18-18dB/ottava, passa banda asimmetrico da 6-30dB/ottava a 30-6dB/ottava
Rapporto segnale/rumore: da 100dBA a 110dBA a seconda della configurazione, single-ended, 1Vrms out
THD+N: 0,015% a 1Vrms fuori single-ended
Tensione di uscita massima: 9Vrms single-ended, 18Vrms bilanciato
Impedenza di ingresso: 47kOhm single-ended, 20kOhm bilanciato
Tensione di alimentazione: 15VDC
Assorbimento: 12W operativo, 2W standby
Dimensioni: 200x50x200mm LxAxP
Peso: 2kg netto inclusi accessori, 2.5kg lordo
Distributore ufficiale Italia: Marantz Italy / Hi-Fi United
Prezzo Italia alla data della recensione: 4.680,00 euro
Sistema utilizzato: al mio impianto