Scorrendo la lista dei luoghi newyorkesi e internazionali in cui Dida si è esibita con successo, sembra di essere al cospetto di una veterana. Birdland, Smalls Jazz Club, BBKing’s, Dizzy’s at Lincoln Center, The Living Room, sono solo alcuni dei palcoscenici che qualunque musicista ambirebbe calpestare. La cosa stupefacente è che questa graziosa cantante e chitarrista israeliana di anni ne ha pochi più di venti. La sua breve storia demolisce anche il luogo comune del giovane indolente, confuso, svogliato, privo di un’idea di futuro, sia anche di breve gittata. La Pelled, al contrario, è iperattiva, sicura di sé, e con le idee molto chiare in ordine al proprio orizzonte, dimostrando anche la piena consapevolezza delle basi su cui costruire. Lo testimonia il modo in cui si propone durante le sue performance live, in formazione a trio, con Tal Ronen al contrabbasso e Gregory Hutchinson alla batteria; sempre sorridente, entusiasta, conscia del sogno che sta vivendo, ma realista sulla lunga e impervia strada da percorrere.
Devo confessare che esercita una forte attrattiva vedere la sua esile figura imbracciare una Gibson semiacustica, lo strumento emblema dei più grandi chitarristi jazz, da Kenny Burrell a Joe Pass, da Jim Hall fino all’immenso Wes Montgomery, e scorrere le agili dita lungo i rombi madreperlacei della tastiera, per dare espressione all’anima blues. Il gioco linguistico di self introduction con cui Dida armonizza scherzando con il suo nome, Dida I do, viene proposto in chiara chiave blues. Ma questa è solo una delle radici fondanti la propria cultura musicale. L’altra è il jazz, quello della prima metà del ‘900, il mainstream, lo swing, il blue note, più da locale notturno raffinato che da cantina underground, il cool, lo smooth, di certo non il genere su cui Duke Ellington ebbe a dichiarare che “il jazz è sempre stato rappresentato come il tipo d’uomo con cui non vorreste far uscire vostra figlia”.
La scena della Grande Mela è stata teatro dell’incontro fatale con il trombettista Fabio Morgera, il quale, affascinato dallo stile con cui questa candida artista cantava e suonava contemporaneamente, non ha esitato a proporre al patron dell’etichetta Red Records, Sergio Veschi, l’idea di lavorare ad un album di debutto. Il risultato è stato Plays and sings, titolo che sintetizza un lavoro di produzione tutto ritagliato intorno al talento individuale di Dida, pur con l’affiatato supporto dei suoi compagni abituali di viaggio, Ronen e Hutchinson, e la partecipazione preziosa, oltre che del medesimo Morgera, del grande Roy Hargrove.
A livello compositivo il disco non presenta alcuna novità, anzi, la scaletta è composta totalmente da standards. L’innovazione è costituita dal fatto che i pezzi sono stati rimetabolizzati sul bagaglio tecnico/stilistico e sulla sensibilità musicale della musicista. Certo è che le citazioni non sono da poco. Due simboli del jazz da intrattenimento quali Our love is here to stay, di Ira e George Gershwin, e Can’t take my eyes off you, di Frankie Valli, che si immaginano originariamente composti per ampi e gremiti auditorium, vengono ridimensionati a misura di piccolo club, per esaltare una voce ancora adolescenziale ed un chitarrismo discreto ed educato, tra i cui dialoghi si inserisce la tromba acre di Hargrove, che sorprendentemente, nel momento in cui sembra volersi librare, si lascia riaccompagnare in una dimensione da little combo. After you’ve gone, di Turner Layton, è il classico pezzo composto per raccontare della tristezza e il malessere che conseguono all’abbandono, il feelin’ blue and sad, che richiede toni dimessi, intimi. Il contrabbasso di Hutchinson è gemebondo, e sfoga il suo dolore parafrasando il testo che recita: Come puoi non accorgerti del mio pianto, dopo che ti ho amata giorno e notte. L’assolo di chitarra è quasi un’implorazione a non dimenticare, a tornare indietro, ma non c’è rabbia. Fried pies è il tributo a Wes Montgomery, il demiurgo, l’ispirazione suprema di tutti gli innamorati delle sei corde, il chitarrista mitologico, alla cui fonte la nostra artista ha cominciato ad abbeverarsi già in tenera età. La matrice blues governa l’introduzione fortemente ritmica, dominata da una tromba vivacissima che progressivamente si stempera nella fluidità di un guitar solo misto ad accordi leggiadri, in un’alternanza tra accelerazione e quiete, con discreto spazio anche per una batteria percossa più su timpano, rullante e piatti che sulla grancassa. Tutti gli ingredienti si ricompongono in un finale di rinnovato ritmo, con la ricomparsa di una tromba imponente. There’s a hull in my life, di Revel e Gordon, è un brano che riprende e approfondisce il tema di After you’re gone:The moment that you’re gone away, there is no night, there is no day. Versi mantra, interpretati in maniera ancora più dimessa, con gli strumenti e la voce sofferenti oltre ogni limite. Ir atzuva – It’s a sad city inneggia alla propria terra; l’autore è Matti Caspi, un songwriter nato in Galilea, considerato un artista seminale, oltre che inventore di nuovi linguaggi musicali. L’arrangiamento crea atmosfera, in un intreccio tra arpeggi eterei di chitarra e i piatti della batteria. Il tema non ha alcuna impronta jazz, ma è alquanto suggestivo nel riecheggiare armonie mediorientali. Con Three coins in the fountain, di Jule Styne, e More than you know, di Rose/Eliscu/Youmans, entra nell’arena Fabio Morgera, il quale, nel primo pezzo, ci regala un assolo magistrale e autoritario, cui risponde Dida, perfettamente a suo agio sul manico della Gibson, che dimostra di conoscere adeguatamente. Nella traccia successiva Fabio sfodera una sordina intrigante, mentre le spazzole di Hutchinson ricamano la superficie su cui il cantato assume connotati profondamente notturni, come se simulasse di accompagnare le coppie rimaste a ballare abbracciate, in attesa dell’ultimo drink che le vedrà scomparire nei loro rifugi amorosi. Stompin’ at the Savoy, è uno standard del 1934, composto dal sassofonista Edgar Sampson, uno dei classici che ha avuto più interpreti nella storia della musica. Cito, tra i tanti, Judy Garland, Charlie Christian, Art Tatum, Clifford Brown, Max Roach, Ella e Sachmo, Jim Hall e Sarah Vaughan. Calcutta cutie appartiene ad Horace Silver, che racconta di averlo scritto senza essere mai stato in India. Il tema solistico di Dida non ha l’energia prorompente di Horace, ma l’uso di una ritmica incalzante, ossessiva e percussionistica, dona al brano un’aura etnica con i cui stilemi si sono cimentati molti jazzisti, Ellington e Coltrane fra tutti. That’s all, di Brandt e Haymes, è il commiato, il finale della colonna sonora del film, quello che precede i titoli di coda; languido, malinconico, come tutte le storie che volgono al termine. Voce, chitarra e sentimental mood, null’altro.
Questo lavoro, pur nella sua disarmante semplicità, non cade mai nel banale o nel didattico. Ti fa respirare la passione, anche se si colgono, tra le note, alcune ingenuità espressive ascrivibili esclusivamente ad un fattore anagrafico. L’arguzia di Dida sta nel non eccedere mai in virtuosismi sterili o fintamente stupefacenti, curando, al contrario, la precisione e la trasparenza del messaggio sonoro, scevro da qualunque tipo di eccesso o sovrastruttura. Le armonie risultano molto fresche e gradevoli, tese alla ricerca di una maturità che non tarderà ad arrivare, specie se la produzione continuerà ad essere di questo livello, e gli accompagnatori di pari classe.
Come confermano le note interne, è importante sapere che la registrazione è stata effettuata nelle stesse condizioni delle esibizioni in pubblico, ovvero con Dida che canta e suona simultaneamente, tutto rigorosamente dal vivo. Questo è indice di coscienza dei propri mezzi, coraggio, e talento. Tenete d’occhio questa ragazza, potrebbe essere nata una stella.
Dida
Plays and sings
Red Records
CD
Total time 58’16’’
2010