L'album di Edie Carey The Veil è stato creato in perfetta autonomia per mezzo di un crowdfunding e quindi senza la pompa magna di una mega produzione e priva inoltre della presenza di un'etichetta discografica vera e propria. La Carey, comunque, si presenta qui con un ottimo lavoro autoprodotto, ben realizzato e altrettanto ben inciso.
L'autrice è originaria del Vermont, ha vissuto a Boston ma è a New York, dove era giunta per motivi di studio, che riceve l'illuminazione giusta, orientando il suo futuro verso la musica. Proprio in un locale di Manhattan ha infatti avuto la possibilità di assistere alle esibizioni live di Jeff Buckley e Ani DiFranco, per esempio. Nell'intimità di questo luogo poco illuminato e al cospetto di artisti che si proponevano al pubblico in intima solitudine, la Carey ha avuto modo di comprendere quanto il suo destino fosse legato alla musica cantautoriale e come la sua vita professionale avrebbe intrapreso una strada diversa rispetto all'originario progetto di laurearsi in medicina.
Dopo l’esperienza di un anno vissuto in Italia, a Bologna, dove si esibisce per le strade come un'autentica folk-busker, arriverà a incidere il suo primo disco nel 1998 e da allora seguirà una sequenza di una decina di album fino ad arrivare a quest’ultimo. La voce della Carey è rotonda, duttile, carezzevolmente intonata e non ha né velature stridenti né tanto meno quelle inflessioni un po' adolescenziali molto alla moda nel canto femminile della contemporanea scena popular. Mi ricorda, più che altro nell'intenzione ma anche in qualche ombreggiatura vocale, Christine McVie dei Fleetwood Mac seconda maniera, dopo la fuoriuscita di Peter Green, per capirci. E anche, nel modo di “portare” le note, a Tori Amos. Si viaggia su un binario pop-rock sicuramente più che collaudato nel tempo ma che conserva però il retrogusto di un'ispirazione folk così come si può ben comprendere raffrontando questo ultimo album con quelli precedenti e in particolar modo con quello d'esordio, The Falling Places. Il suo primo lavoro, infatti, intriso di chitarre acustiche, era condotto da una voce ancora un po' immatura e solo parzialmente consapevole delle proprie possibilità. Nei dischi che seguiranno e in particolare nei brani che compongono The Veil, tutti di ottima fattura, si avverte una predominanza di ballate e pezzi lenti sorretti ancora da una certa struttura acustica ma che si è fatta via via sempre più affiancare da una componente elettrica e rockeggiante. Si tratta di un lavoro combinato all'insegna dell'equilibrio, coadiuvato dalla mano del produttore Scott Wiley, che ha realizzato la quadratura del cerchio, togliendo ogni inutile asprezza e fornendo all'album un corretto, intrigante “tiro” strumentale.
Possiamo ben affermare che Wiley abbia lavorato astutamente, rendendo il prodotto finale ben fruibile da tutti, mantenendolo comunque nell'ambito di un'ottima qualità complessiva.
La Carey suona il pianoforte e la chitarra acustica, lo stesso produttore Wiley lo troviamo in alcuni interventi di chitarra e synth. Ad aiutare la stessa autrice troviamo altri due buoni pianisti come Paul Jacobsen; quest'ultimo anche alle chitarre, e John Standish. Al basso elettrico e al contrabbasso ci sono rispettivamente Stuart Maxfield, che si occupa anche di violini e chitarre, e Ryan Tilby. Aaron Anderon è alla batteria, Chad Truman e Sam Cardon all'organo Hammond. Presente una cospicua sezione di archi i cui arrangiamenti sono curati da Stuart Wheeler e vedono il supporto di Mai Bloomfield e Cassie Olson ai violoncelli, Emily Brown alla viola, Aaron Ashton e Rebecca Moench ai violini.
Per concludere segnaliamo i cori femminili di Megan Burtt, Sarah Sample e Rose Cousin. Come si può vedere si tratta di un nutrito gruppo di musicisti che segnala la raffinatezza e l'accuratezza del lavoro di realizzazione, quest'ultimo ancora più encomiabile sapendo che alle spalle di tutto ciò c'è un'autoproduzione, promossa e facilitata dalla contribuzione pubblica.
L'album si apre con il brano che gli dà il nome, cioè The Veil. Il velo di cui la Carey parla nel testo allude a quella sottilissima distanza che esiste tra un'esistenza prevedibile e una svolta improvvisa, spesso drammatica, in grado di alterare certezze e progetti futuri. Un velo di cui l'autrice ha preso coscienza in seguito a un incidente d'auto che l'ha coinvolta insieme ai suoi figli e anche per l'imprevedibile passaggio del Covid con tutte le sue vittime e gli isolamenti conseguenti. Le chitarre elettriche arpeggiate sono un po' quelle che sentivamo negli anni '90, durante il recupero temporale di certo rock alla Byrds, ad esempio di quello proposto dagli australiani Church o anche percepibile, in alcune sfumature, nelle suggestioni britanniche dei Cure e di Siouxsie and the Banshees.
The Old Me è tra le cose migliori in assoluto dell'album. Leggendo il testo non appare chiaro a chi sia rivolto lo struggente tema nostalgico che percorre dolentemente tutto il brano. Ma l'accortezza dell'arrangiamento, tra chitarre acustiche arpeggiate, una misuratissima batteria e qualche intervento di chitarra elettrica rendono il pezzo leggero e suggestivo. Compare anche l'Hammond di Sam Cardon verso il finale, con qualche lirica e breve pennellata sonora.
The Chain è un'efficace rock-ballad in mid-tempo, non molto originale per la verità, ma ben condotta dalla voce della Carey accompagnata dal coro della cantautrice Megan Burtt, che ha partecipato alla composizione del brano. Buona la chitarra elettrica con la sua nuance in distorto arpeggio.
I Know This è un brano lento e partecipato in cui la Carey s'accompagna al pianoforte ma sono il synth di Wiley e il violoncello della Bloomfield a caratterizzare l'anima nascosta e riflessiva del pezzo. Il testo è una sorta di esplicitazione del senso di colpa dell'autrice nei confronti dei propri affetti, costretti a subire una minor attenzione per via di una serie di suoi impegni che il testo, ermetico al punto giusto, si guarda bene dal rivelare.
Rise è una canzone che invita a reggere gli stress della vita e ad affrontarne le parti più oscure e dolorose. Il ritornello è gradevolmente appiccicoso con l'aiuto del coro di Rose Cousins. Anche questa è una ballatona rock che strizza l'occhio al grande pubblico ma nel complesso tutto resta al di sopra della sufficienza, soprattutto grazie alla ben riuscita fase di produzione.
Intimissimo, con un testo quasi nascosto in un pudore che pesca nella storia familiare dell'autrice, è il seguente brano The Day You Were Born, eseguito in perfetta solitudine con voce e pianoforte. In questo frangente diventa quasi palese l'analogia con la Amos, in particolar modo nell'aggiustamento compiuto sulle note più alte del cantato.
Più sottotono Teacher, troppo prevedibile e perfino un po' noiosetta, nonostante il testo della canzone sia forse il migliore della raccolta. Si traccia la linea ideale di quello che dovrebbe essere un buon rapporto madre-figlia, restando attenti a come vengano espresse le emozioni, evitando di manifestare soprattutto quelle più negative e tenendo presente che la naturale tendenza dei figli più piccoli è quella di imitare in tutto e per tutto i propri genitori.
All the Space è una ballata lenta e melodica ben equilibrata nella forma e nella composta esecuzione con un testo nostalgico e toccante, “...Falò sulla spiaggia, ridevamo sul molo fino a tardi, giocavamo a nasconderci, che meraviglia la Via Lattea e tutto quello spazio...”.
Sostenuta solo dal piano e dagli archi, Georgia si pone anch'essa sulla scia del fantasma benevolo di Tori Amos. Forse sarebbe meglio che la Carey cercasse di allontanarsene, magari insistendo maggiormente sulla matrice pop-rock, più che altro per evitare scomodi termini di paragone che inevitabilmente si è costretti ad annotare di fronte a queste pur involontarie somiglianze. Ed è un peccato perché, il brano in sé, con qualche invenzione di violoncello di Cassie Olson, non è affatto male, dimostrando che la duplice dimensione “voce e pianoforte” sarebbe congeniale alla Carey, se solo dimostrasse di essere un poco più personale di quanto non sia in questa occasione.
Molto meglio, infatti, vanno le cose in The Cypress and the Oak, introdotto da una bella sovrapposizione di chitarre acustiche e dalle note di fondo del violoncello della Bloomfield che emerge tra gli altri archi con estrema dolcezza. Bene anche la voce, con i vibrati al punto giusto e tonalità timbriche più personali rispetto al brano precedente. Le chitarre elettriche appaiono dietro le quinte in un breve intermezzo strumentale, prima della ripresa del cantato e della chiusura della traccia.
Potente appare Who I Was con improvvisi e accecanti lampi pieni di chitarre elettriche distorte. Inizio quasi sottovoce fino al punto in cui una batteria più cattiva del solito s'allea alle chitarre per offrire un mood dalle note urbane e leggermente più heavy.
Si chiude in delicatezza con You're Free, un'altra ballata lenta, molto personale, con il contrabbasso di Tilby e il pianoforte di Jacobsen che s'incunea con qualche nota, strategicamente ben piazzata, tra la voce e la chitarra acustica.
I temi presenti nei testi – se vi interessa leggerli li trovate sulla home page della Carey – sono penetranti, ambigui e spesso oscuri ma vi si colgono note che esprimono trascorsi disagi familiari e tensioni affettive, soprattutto nei riguardi dei figli. La musica, come è stato detto negli appunti introduttivi di questa recensione, è ben prodotta e altrettanto elegantemente composta ma sconta un certo filone poco originale che accomuna, in parte, questa autrice a molte altre attualmente presenti sulla scena americana. Tuttavia, è utile cercare di illuminare i numerosi dettagli interni dell'album, dal linguaggio a volte quasi colloquiale delle canzoni ai particolareggiati innesti degli strumenti, con le performance dei musicisti ben ragionate e allineate in un sapiente e delicato sistema di misure e contrappesi. Un ultimo accenno positivo va indirizzato alla sobrietà interpretativa della Carey e alle suadenti sfumature vocali con cui ella accompagna tutte le sue canzoni.
Edie Carey
The Veil
CD autoprodotto 2022
Reperibile su Qobuz 24 bit/96 kHz e su Tidal 16bit/44kHz