Qualcuno forse ricorda che attraverso le pagine di ReMusic mi ero già occupato qualche tempo fa, più precisamente nell'ottobre del 2022, di Frank Kimbrough e del suo album postumo Ancestors, vedi qui. Questo pianista del North Carolina, scomparso due anni prima di quella pubblicazione, era poco conosciuto dal grande pubblico nonostante fosse invece tenuto in buona considerazione nell'ambiente musicale, molto amato e stimato dai suoi colleghi. La sua musica fu una sorpresa anche per me, dato che mi ero avvicinato a questo artista con notevole ritardo e devo dire anche un po' sospettosamente, attratto con un certo timore dalla sua voluminosa opera – sei CD – dedicata a Thelonious Monk. Ora, a distanza di cinque anni dalla sua morte avvenuta all'età di 64 anni, viene editato il nuovo The Call, lavoro per piano solo, dove è possibile ascoltare tutta la profondità espressiva di questo pianista, mediata da una tecnica assai raffinata e da un sentire spesso più elegiaco che esuberante. Frank Kimbrough ci fa quindi oggi ancora compagnia con discrezione e gentilezza con quest'album registrato in solitudine alla Maggie’s Farm in Pennsylvania, un pomeriggio d’estate del 2010, e che giunge ora a noi con il suo carico sonoro riemerso dal Tempo, un archivio di emozioni sospese che oggi possono farsi finalmente apprezzare.
The Call rappresenta allora un tassello fondamentale per comprendere la dimensione solista di Frank Kimbrough, pianista più noto per i suoi lavori in trio e per la lunga militanza nella Maria Schneider Orchestra. Il programma alterna standard e composizioni originali, delineando un percorso coerente in cui tecnica e introspezione si equilibrano senza mai sopraffarsi. Caratteristiche di Kimbrough, del resto presenti non solo in questo album, sono l'uso di un tempo dilatato, l'alternanza consapevole col silenzio, il controllo timbrico quasi “sospeso” teso a trasformare il pianoforte in uno strumento narrativo, attraverso un dialogo interiore che si muove attento tra linee melodiche e basi strutturali ben delineate.
La musica è quindi carica, intensa, pronta a fluire sulla tastiera con tutto il sentimento di cui Kimbrough era capace. Nei dieci brani dell'album – tra Ellington, Gershwin, Hill, Gillespie e il repertorio personale – affronta tutte le composizioni, proprie e altrui, concedendosi abbondantemente allo spazio acconcio dell’improvvisazione, con la grazia di chi conosce a fondo l’arte della tensione armonica e del conseguente rilascio risolutivo. Flessioni ritmiche e vapori di idee si sollevano leggeri dal pianoforte dove la dimensione interiorizzata sembra prevalere in una forma di agrodolce serenità che permea tutto questo lavoro, a tratti con escursioni in una dimensione romantico-nostalgica vicino a certe atmosfere alla Brad Mehldau e talora quasi parallele a figure come Keith Jarrett, anche se quest'ultimo in misura minore. Esemplare è l'economia di mezzi – mai minimalista, però – caratterizzata dal nitore espressivo e da un giusto equilibrio tra cantabilità ed esigenze armoniche moderatamente dissonanti. Possiamo parlare a ragion veduta di una “poetica malinconica” che trova in una certa rarefazione sonora il suo punto di forza. L’improvvisazione è preponderante e s'infila discretamente anche e soprattutto nelle trame melodiche originali dei brani riproposti di autori altrui, sembrando svincolata da forme precostituite a parte le influenze blues e l'uso frequente di vamp portati in reiterata successione dalla mano sinistra. Il tutto dimostra la capacità di Kimbrough di coniugare costruzione logica e libertà espressiva, come ad esempio avviene nella scintillante e movimentata Night in Tunisia. In questo senso l'album si configura un documento non soltanto estetico ma metodologico, testimoniando che la pratica dell’improvvisazione venga intesa come ricerca di senso e non come semplice esercizio virtuosistico. The Call, va detto, non è un’opera accessoria ma un capitolo imprescindibile per valutare la poetica di un musicista la cui discrezione mediatica ha spesso oscurato la rilevanza artistica. Qui emergono in forma compiuta l’eloquenza melodica, la verve ritmica e la profondità armonica che hanno fatto di Frank Kimbrough un interprete singolare nel panorama jazzistico contemporaneo.

Angelica, il brano iniziale, è una composizione di Duke Ellington del 1963 che compare in un famoso album pubblicato in coppia con John Coltrane, intitolato appunto Duke Ellington & John Coltrane. Sembra, inizialmente, che questo pezzo sia molto rallentato rispetto all'originale ma in realtà è solo l'approccio guardingo di Kimbrough, che scompone la melodia cercando di costruirvi attorno un impianto armonico personalizzato. Più passa il tempo, più il fraseggio si fa moderatamente convulso trasformandosi in un be-bop che tende a tracimare i limiti della melodia ma senza perdere mai il filo del discorso. Verso le battute finali il brano rallenta, come se avesse esaurito le risorse del remake in Technicolor in atto. Si tratta in definitiva di una dichiarazione programmatica, un'esplorazione creativa che non tradisce la limpidezza melodica originale, seppur cromaticamente rivisitata.
Si passa poi a Tin Tin Deo, una traccia di Dizzy Gillespie scritta originariamente come contributo all'Afro-Cuban jazz nel 1948. Il curioso titolo è una deformazione linguistica inglese della frase in spagnolo “te intiendo”. Ovviamente nella versione di Kimbrough non ci sono le percussioni latine e la matrice afrocubana si riduce a una scarna essenzialità in cui viene stravolto il clima tipicamente mosso della musica centroamericana. Il pezzo si traduce così in una sorta di meditazione rassegnata, con le note del pianoforte sospese nel vuoto, venate di un magnifico blues.
The Call è la title track che verrà reincisa nel 2014 con l'album Quartet, dove apparirà come incipit. Qui, invece, in assoluta solitudine e lontano dall'influenza degli standard, il brano si allunga su un'improvvisazione che sembra un arcobaleno di timbriche, disteso sopra uno schema implacabile di bassi ben condotto dalla mano sinistra. Qualche accenno di sapore classico, il solito alito di blues e insomma questo è un altro brano “perfetto” presente in questo splendido album.
Credevo di aver ascoltato la migliore versione di I Loves You Porgy – con la “s” alla fine di “love”, che deriva dalla pronuncia approssimativa dell'inglese da parte degli schiavi neri – dall'album The Melody At Night, With You, 1999, di Keith Jarrett. Ma devo dire che questo iconico brano di Gershwin reinterpretato dallo stesso Jarrett, in quanto a versioni da brivido, se la deve giocare proprio con questa altrettanto bella di Kimbrough, intimità pura, una dolce lacerazione che rivela quanto la vita sia una strana tendenza all’oscurità. Il brano frena, sembra dissolversi, vaporizzarsi per poi riprendere con una lenta sequenza che racconta di riflessioni, meditazioni, rispecchiamenti interiori attraverso una ballad strisciante di rimpianto. Ci si abbandona al blues nella seconda parte tra le note vibranti e cristalline della Steinway. Insomma, un capolavoro, e non tanto piccolo.

From California With Love è un brano di Andrew Hill, uno dei maggiori riferimenti pianistici dello stesso Kimbrough. E in questo pezzo tratto dall'omonimo album del 1979 – originariamente lungo quasi una ventina di minuti – si sente come la mano di Hill guidi simbolicamente quella del nostro esecutore, pur avendo quest'ultimo reso più plastica e più scorrevole la lettura della traccia. Il tocco pianistico e il controllo perfetto delle dinamiche e dei pedali fanno di questo brano una progressiva salita spiraliforme verso la luce.
November è invece una traccia brumosa, uscita dalla penna e dalle dita dello stesso Kimbrough, impostata su un accordo che tende alla quinta eccedente con un'iniziale attacco melodico su scala pentatonica. Forse è il brano più atmosferico, con le sue trame tese tra foschie incombenti e subitanee apparizioni di luce. L'improvvisazione accenna a portarsi out of tune per sfuggire alla scura malinconia verso cui convergono tutte le linee armoniche del brano stesso.
Reflections in D non esce, se non parzialmente, dal clima introverso innescato dal pezzo precedente, anche se qui la forma s'avvicina al modulo-canzone, notturna ed elegante, dell'originale brano di Duke Ellington, tratto dall'LP The Duke Plays Ellington del 1953. Non è difficile intravedere nella scrittura ellingtoniana un passaggio ripreso da April in Paris di Vernon Duke del 1933. Kimbrough tratteggia la sua musica con grazia celeste, al limite della mimesi, approfondendo ancor di più la depense esistenziale tradotta in scarne – veramente poche ma essenziali – note consuntive.
Abbiamo già accennato a Night in Tunisia, brano di Dizzy Gillespie del 1942 diventato uno degli standard più replicati nella storia del jazz e non solo. Una prova evidente della capacità tecnica di Kimbrough, alle prese con un feroce be-bop anche se presenta una fase iniziale più di studio, dove il pianista osserva la struttura tematica già friggendo all'idea di de-costruirla disseminando le sue note nel cinematico “riffeggiare” dell'energica improvvisazione.
In a Sentimental Mood è il vero capolavoro di questo album. Il brano, notoriamente di Ellington e composto nel 1935, viene qui filtrato da una sensibilità diretta e concentrata nota dopo nota. Il pezzo viene smontato, supervisionato passaggio dopo passaggio e – nonostante il pianoforte non accordato benissimo – trasformato in un fiore esotico di rara bellezza. Si tratta della versione più bella in assoluto che abbia mai ascoltato, dove improvvisazione e tracciato melodico s'incrociano, si sovrappongono e quando sembra che prendano strade diverse, finiscono per tornare a riunirsi in un estuario armonico di grande valore tecnico ed espressivo. Tredici minuti di valore musicale assoluto che potrebbero durare tredici ore senza stancare.
Si chiude con Improvvisation, caratterizzato dalla sovrapposizione della linea melodica e un accompagnamento di note gravi che sembrano accavallarsi su due fronti diversi. Gli accordi non sono progettati ma accadono improvvisamente, frutto di una sorta di satanica dolcezza capace di scuotere l'ascoltatore come un turbine inarrestabile. Riemergono casualmente anche le note di Night in Tunisia e poi di chissà che altro, frammiste e mescolate in questo bollente calderone di suoni. Termina così quello che per me è, ad ora, il miglior album del 2025.

Kimbrough, in questo lavoro postumo, non offre soltanto un recital di piano solo ma consegna un testamento poetico, intimo e crepuscolare, che vibra di pathos per lo più sommesso ma che a volte diviene per contro realmente vulcanico. Possedendo l'arte di discernere i caratteri armonici, di calarsi nelle profondità mentali e di risalirne riportandone ricchezze inaspettate, questo pianista andrebbe assolutamente riscoperto e riascoltato, dato che davanti alla bellezza della sua musica ogni nota critica appare fiacca e irrisolta.
Frank Kimbrough
The Call
CD Sunnyside Records 2025
Disponibile in streaming su Qobuz 24bit/96kHz e su Tidal qualità max24bit/192kHz