Se lo spirito di John Fahey aleggiasse ancora su questa Terra, sicuramente potrebbe rallegrarsi di questa ragazza gallese che tratta la chitarra acustica con quasi le stesse modalità espressive del musicista di Takoma Park. Molta verve, forse eccessiva, soprattutto in alcune parti prese di corsa con un ardore tutto giovanile, misconoscendo a volte quei silenzi evocativi e quei larghi spazi che invece caratterizzavano l’indole di Fahey.
In questo suo secondo disco, Strange lights over Garth mountain, Gwenifer Raymond si allaccia alla tradizione, certo, ma a quale? Appare obnubilato il ricco patrimonio folklorico inglese a favore di un suono essenziale che tradisce l’Inghilterra per allinearsi tra le fila dei grandi e carismatici bluesman del passato americano. La musicalità della Raymond, così asciutta e sostanziale, scava nello stomaco, rimanda a dimensioni profonde affascinate da ballate country e da qualche suggestione bluegrass. Accordature aperte, finger picking, arpeggi insistiti con corde lanciate in risonanza. In questo modo la musicista gallese si cuce addosso una dimensione estetica certamente di singolare fascino, un abito scarnificato in cui la melodia pare essere inglobata in una struttura verticale di accordi scalpitanti, spesso urgenti, alle volte piacevolmente dissonanti come in Eulogy for dead French composer. Si apre comunque il giro con Incantation, quasi un invito alle danze con un ostinato in 3/4 che prelude a un viaggio tutto acustico, tutto nella chitarra, introdotto da una delicata percussione, che resta discretamente in sottofondo per l’intero svolgersi del brano. Si comincia a correre nel brano seguente, Hell for certain, a dire il vero più ricco di ingenuità e risoluzioni armoniche collaudate piuttosto che di bellezza. Va meglio con il seguente Worn out blues, secco fino all’osso ma fin troppo scarno e ripetitivo. Marseilles bunkhouse trova qualche soluzione più interessante e l’atmosfera complessiva rimane adesa a quel piglio un po’ stralunato che caratterizza l’intero disco. Si procede oltre, senza particolari scosse fino a Ruben’s song, dove il passo si fa più svelto ed elegante. Si è già detto di Eulogy for dead composer, dove la Raymond cerca e trova finalità armoniche più coraggiose, così come anche avviene nel brano che titola l’album, Strange lights over Garth mountain.
La critica internazionale ha accolto probabilmente con eccessivo entusiasmo questo lavoro chitarristico, sincero e profondo, spirituale quanto si vuole, ma che pecca di originalità. Forse le nuove generazioni potrebbero ricavarne qualcosa di nuovo e di mai udito, ma basta digitare due richiami sulle piattaforme di streaming per riequilibrare il tiro. Uno di questi due nomi l’abbiamo già citato ed è quello di John Fahey. L’altro è quello del meno conosciuto Robbie Basho, mistico e solitario poeta del suono acustico, sfortunato nella vita come nella morte, avvenuta accidentalmente per una manovra scomposta di un chiropratico. Certo fa specie e anche piacere sapere che qualcuno abbia raccolto quell’eredità lasciata oltreoceano, la tradizione americana mescolata in qualche misura con il raga indiano che induceva nell’ascoltatore un open focus mentale, una traccia meditativa quasi estatica. Ma questo lavoro di Gwenifer Raymond non so se leggerlo come un recupero, quasi un’imitazione alle volte persino troppo evidente di quei chitarristi che sapevano ascoltare “la voce della tartaruga” o se invece considerarne l’intrinseca sincerità, l’atto di fede di una musicista contemporanea che si è fatta adepta di una misterica religione sonora a rischio, nel tempo, di un immeritato oblio.
Gwenifer Raymond
Strange lights over Garth mountain
CD Tompkins Square Records 2020
Reperibile in streaming su Qobuz 16bit/44,1kHz