A fine anno scorso, ho trovato due piacevoli sorprese sotto l’albero. Da una parte l’inaspettato e gradito ritorno dell’italiana Red Records, etichetta fondata da Sergio Veschi nel 1976 e ora diretta da Marco Pennisi, in precedenza art director della stessa. L’altra piacevolezza sta nel fatto che proprio la Red ha pubblicato il secondo disco di un giovane pianista del New Jersey, Isaiah J.Thompson, Composed in Color. Thompson si era già fatto notare per il precedente lavoro Plays the Music of Buddy Montgomery, pianista e vibrafonista jazz fratello del più famoso Wes, uscito l’anno scorso per la Wj3 Records di New York. Supportato da una splendida grafica di copertina, certamente un po’ retrò ma affascinante in parte proprio per questo, Thompson si ripropone ora di nuovo in un classico trio piano-basso-batteria con Philip Norris al contrabbasso – ma nel brano Raise Four di Monk suona Christian Mc Bride – e una rotazione di tre batteristi tra cui TJ Reddick, Joe Farnsworth e Kenny Washington.
Fa un effetto stranissimo, questo ultimo album di Thompson e la ragione di ciò sta nel fatto che all’ascolto pare di compiere un viaggio nel tempo a ritroso di parecchi anni, verso quel pianismo be-bop che pareva, almeno dalle giovani leve di musicisti e non solo americani di questi ultimi anni, ormai piuttosto superato. Vuoi per la comparsa del jazz nordico, pieno di rimembranze classiche ed effetti elettronici, vuoi per l’assetto di ricercata dissonanza e sperimentazione di molto jazz del resto dell’Europa, Italia compresa, sembrava infatti che la presenza ideale dei vecchi maestri fosse rimasta appartata, celata nell’inconscio creativo come un engramma mentale su cui strutturare linguaggi completamente nuovi.
Invece, grazie anche alla via aperta negli USA da gente come Immanuel Wilkins, Joel Ross, Brandee Younger, ciascuno con le proprie diversità, c’è stato un graduale e forse un po’ troppo mascherato recupero di certe sonorità legate ai ’50 e ’60, periodo tra i più fecondi della storia del jazz.
Thompson s’allinea a un vasto numero di influenze pianistiche che partono da Ellington fino a coinvolgere personaggi storici come Bud Powell, Ahmad Jamal, Erroll Garner e soprattutto artisti come Bobby Timmons e Tommy Flanagan, influenze quindi che vedono praticare la religione del be-bop, legandosi fortemente alla tradizione nera dal dopoguerra circa in poi. Non solo ma anche i ritmi, le pause, gli stacchi e i brevi assoli circostanziati degli strumenti ci rimandano ai periodi sopra descritti. Viene anche ripescato, in una qual certa misura, il recupero di una gerarchia tra strumento principale e base ritmica, ordinamento che sembrava superato con la crescente partecipazione del contrabbasso e della batteria in prima linea nell’economia dello svolgimento musicale. La formazione a trio resta piramidale e, in questo specifico caso, è il piano la stella principale, il centro di questo sistema planetario. Detta così, parrebbe di avere tra le mani un lavoro retrogrado, un ossequioso “back to the roots” in cui i musicisti possano elegantemente simulare lo spirito dei loro predecessori. In realtà ascoltare un disco come questo rinfresca l’aria e ci riallaccia a piaceri antichi, quando si era coinvolti dalle infinite sfumature di stili che differenziavano tra loro i pianisti e si ammiravano, oltre che le sorprese armoniche, anche le escursioni velocizzate molto tecniche delle linee melodiche.
Come si è capito, in questo Composed… non si troveranno ardimenti sperimentativi o eccentrici sigilli di stile, né tantomeno faticose maratone improvvisative, ma solo buona musica di spessore e un solismo pianistico che fa danzare le note, senza alcuna nostalgia ma con un rivivificante spirito d’adattamento di un certo passato ai giorni nostri. Del resto, Thompson non spunta dal nulla. Ha fatto parte della Jazz at Lincoln Center Orchestra di Wynton Marsalis, ha suonato con Ron Carter, John Pizzarelli, Steve Turre. Insomma, ha una robusta costituzione musicale alle spalle che gli permette di fare quello che fa con la giusta cognizione di causa.
L’album inizia con un classico che più classico non si può, quel Take the A train di Billy Strayhorn scritto nel 1938 e che divenne poi un vero e proprio biglietto da visita, la sigla di apertura dei concerti di Duke Ellington. Un accenno di piano, un intro di rullante e cassa di batteria precede lo swingatissimo brano che parte subito forte, correndo spensierato sulla tastiera di Thompson e sulla presenza di un emozionante running bass, un walking più sostenuto…
Segue Senor Blues di Horace Silver, composto nel’58 e uscito come singolo Blue Note nello stesso anno: lo si può ascoltare nella riedizione rimasterizzata del ’98 in Six Pieces of Silver. Il pezzo in questione venne presentato per la prima volta al pubblico al Newport Jazz Festival dell’anno dopo. Mancando la partecipazione dei fiati presenti nel brano originale, il piano si occupa di sostituire le parti orchestrali, mantenendo però sia il tempo di base che il caratteristico tema che rende subito identificabile il brano, tema che poi viene preso in carico dal contrabbasso per consentire a Thompson di liberare la sua capacità d’improvvisazione pianistica.
Hi-Fly è un altro riconoscibilissimo brano scritto negli anni’50 da Randy Weston. Nonostante la piacevolezza dell’ascolto, la trasformazione del pezzo in una struttura più semplificata, con tanto di citazione dotta di Gershwin, rispetto alla versione di Weston ben più elaborata, che si può ascoltare nell’album African Rhythms, fa sì che la mia personale preferenza vada comunque all’originale.
Chelsea Bridge è un altro prodotto del geniale Billy Srayhorn, che compose il pezzo nel 1941 e la cui versione più famosa fu la pregnante interpretazione di Ben Webster in coppia con Gerry Mulligan in Gerry Mulligan meets Ben Webster del 1963. Il brano, velato da toni impressionistici e con un non so che di accenno enigmatico nello sviluppo, viene qui assai ben interpretato con un tocco pianistico quasi inaspettato, un delicato approccio sfumato da una certa magia espressiva che Thompson conduce senza troppo miele in un alone di ineffabile malinconia.
Fin dai primi accordi un po’ sghembi di piano riconosciamo un brano di Thelonious Monk come questo Raise Four pubblicato nell’album Underground del ’68. Al contrabbasso troviamo Christian McBride che innesta un robusto accompagnamento valorizzato da un assolo iniziale, per poi lasciare campo al piano di Thompson e a un secondo assolo, questa volta di batteria, verso il finale. Ovviamente in questa versione si cerca di evitare l’impostazione che Monk ha dato al suo brano, con quella sequenza di accordi armonicamente instabili e dissonanti, che però costituivano il suo marchio di fabbrica. Thompson sviluppa il pezzo in modo più orizzontale, cercando il flusso di note con la mano destra e velocizzando leggermente di più il tempo di battuta.
Twelve’s it è una composizione di Ellis Marsalis del 1998 che Thompson rallenta nel ritmo, accoppiandovi qualche ritmica dal sapor latino. Inoltre, in questa versione la struttura viene maggiormente dispiegata e svolta quasi per chiarirne l’intimo disegno che nell’originale brano di Marsalis resta coperto dalla corsa a rotta di collo del suo piano.
Mikula Blues è composto dallo stesso Thompson e non sfigura affatto accanto agli standard proposti fin qui. Una prova d’intenso swing che ha un inizio quasi classicheggiante, del resto la preparazione tecnica di questo pianista è tale da permettergli di affrontare istanze musicali diverse con la medesima duttilità e scorrevolezza. Il brano corre su una ritmica attenta e puntuale con uno spedito, autorevole assolo al contrabbasso di Philip Norris e un secondo assolo di batteria di Tj Reddick “vecchia maniera”, cioè giocato soprattutto tra tamburi, senza quasi intervento di piatti alcuno.
Ojos de Rojo è di Cedar Walton e lo si può ascoltare, per un raffronto, su un disco edito proprio dalla Red Records, The Trio vol.2, dove Walton suonava con David Williams e Billy Higgins. La versione qui presentata da Thompson ha una propria eleganza armonica che in Walton forse non rileviamo, così pure un maggior respiro tra gli strumenti.
Il bebop è interpretato in uno dei suoi massimi possibili, come lo è del resto in tutto l’album. Ora però è il momento di aspettarci un Thompson compositore e non solamente interprete seppur brillantissimo di musica d’altri. Sia nel suo precedente album che in quest’ultimo la rivisitazione di brani altrui riesce molto bene, così come le reinvenzioni di singole cellule melodico-armoniche proposte nelle diverse tracce di questo album. Ma l’aspetto compositivo presentato è ancora troppo scarno e da un pianista di questo calibro ci si aspetta sempre qualcosa in più. Al presente, accontentiamoci comunque di riascoltare un idioma ben riproposto che credevamo di avere ormai perduto.
Isaiah J. Thompson
Composed in color
CD Red Records 2021
Reperibile in streaming su Spotify MP3/320kB e Tidal16bit/44kHz