In questi tempi di sfaldamento e inesorabile decadenza occidentale c’è chi, come Jake Xerxes Fussell, si prende la briga di raccogliere alcuni frammenti per riassettarli nel modo più creativo possibile. Il folk singer americano, originario della Georgia ma residente nel North Carolina, è noto per riproporre vecchi brani tradizionali, molti dei quali assai poco conosciuti, alle volte assemblando parti di provenienza diversa, dimostrando così una certa spavalderia filologica ma offrendo nuova vita e luce a storie che raccontano un’umanità complessa e dolente.
Il suo modo di affrontare le canzoni, soprattutto in questo suo quarto album Good and green again, ricorda in parte Bert Jansch, per quel tono crepuscolare proprio della voce dell’autore britannico, e in altra parte Ry Cooder, per l’approccio disilluso ma empatico con cui vengono raccontate le storie. Nonostante la buona tecnica di Fussell, chitarrista che non ama apparire più del necessario, il paragone strumentale con Cooder non è comunque evidentemente sostenibile. Attorno ai brani dell’album si succedono con discrezione strumenti diversi tra i quali qualche sbuffo di fiati, altre chitarre, violini, tastiere, insomma un’impalcatura piuttosto minimale, mai strabordante, che non soffoca l’idea centrale di Fussell, quel suo laconico accento quasi pastorale nel raccontare momenti anche drammatici di vita quotidiana. Certo, qui manca lo spirito polemico, la denuncia politica, la rivendicazione sociale. Si tratta per lo più di riflessioni, di meditazione soppesate sul destino di ciascuno dei personaggi inclusi nella narrazione dell’autore. E si ragiona indirettamente anche sul vecchio “sogno americano” e di tutte le illusioni createsi attorno a questa utopia.
Il parco dei musicisti che lavorano con Fussell è nutrito, nonostante l’oculata gestione dei suoni. Troviamo per primo l’amico Bonnie Prince Billy che accompagna la voce solista in qualche intervento ai cori, Casey Toll al contrabbasso, i due violini di Libby Rodenbough e Joseph Decosimo, Joe Westerlund alla batteria, James Elkington – che è anche il produttore di questo disco – alle chitarre e tastiere, Anna Jacobson alla tromba, Nathan Golub alla pedal steel guitar. La sequenza delle nove tracce dell’album comprende quindi tre brani solo strumentali interamente composti da Fussell mentre gli altri sei, come già accennato inizialmente, sono brani tradizionali o ricostruzioni assemblate ex-novo partendo da elementi comunque popolari tratti dalla storia della musica anglosassone.
Love farewell, il brano che dà l’avvio alla sequenza delle tracce, parla dello sconforto da parte di una giovane donna per il mancato ritorno del suo uomo dalla guerra. Un delicato fingerpicking ne costituisce l’ossatura, una ballata acustica su cui il canto di Fussell procede nel suo registro pieno e commosso, rinforzato verso le battute finali dalla voce di Prince Billy che vi costruisce una doppia voce ad hoc.
Carriebelle si sostiene sulle battute secche di una chitarra elettrica, arrotondata dai fiati della Jacobson. Si trattava in origine probabilmente di un blues intonato dagli schiavi nella regione della Georgia e Fussell ne preserva la semplicità, anche se gli ottoni sullo sfondo ne danno un profilo piuttosto funereo.
Breast of Glass è un traditional diffuso nel mondo anglosassone, forse nato in Irlanda e poi arrivato nel corso degli anni fino agli USA. Un bel motivo melodico, con la chitarra acustica in evidenza e il supporto di chitarra elettrica in un riff che vi aggiunge una delicata valenza ritmica. Tastiera sommessamente sullo sfondo, contrabbasso e batteria appena percepibili, che da metà in poi scandiscono tempi e donano profondità a una struttura di per sé piuttosto lineare.
Frolic è il primo dei tre brani strumentali ed è incentrato sulle armonie chitarristiche tracciate anche dal suono della steel guitar di Golub. Un moderato tempo tagliato, con l’apporto di qualche coretto, leggero come e più di una piuma ma in definitiva niente di indimenticabile.
Rolling Mills are burning down è un brano tradizionale che proviene dall’Inghilterra settecentesca e che parla originariamente di una locale perdita di produzione industriale e della conseguente crisi economica che ne consegue. Il testo è stato presumibilmente rivisto da Fussell e la musica “bluesizza” questa ballata con un intervento di piano molto discreto che s’intercala tra l’arpeggio della chitarra e un leggerissimo background di violini.
What did the Hen Duck to the Drake è il secondo pezzo solo strumentale dal titolo spiritosamente oscuro. Fussell pesca qui nel fondo della tradizione, riesumando l’attitudine un po’ minimale che era di John Fahey con accompagnamenti semplici, spesso ripetitivi, che rimandano alla terra e alla campagna.
The Golden Willow Tree è il brano più lungo e suggestivo della selezione di quest’album. È una traccia conosciuta anche sotto diversi titoli nel passato – ad esempio come The Golden Vanity o The Sweet Trinity – e in modo analogo alle storie dei miti antichi se ne conoscono versioni con finali e aggiustamenti differenti. Anche questo brano sembra provenire primitivamente dalla tradizione britannica, risalendo addirittura al 1635, anno in cui si hanno le prime notizie di questa melodia da cui origineranno numerose varianti. La resa è molto asciutta e sfiora l’essenzialità, se non fosse per qualche sibilo di chitarra elettrica in lontananza, un intervento di violini e il contrabbasso, a rafforzare le battute. La traccia, così come viene presentata, è più indirizzata verso lo stile di un Martin Carthy o di Nick Jones e cioè dimostrando un imprinting molto più britannico che non americano.
In Florida è il terzo e ultimo brano strumentale, forse il più accattivante, quello assemblato meglio, con le tastiere a simulare una fisarmonica e la tromba della Jacobson che compare nel finale. Bello anche il triplice accoppiamento chitarra acustica, elettrica e contrabbasso a costituire la struttura di riferimento.
L’ultimo brano, Washington, ha una musica che è stata composta attorno a un testo ritrovato casualmente verso la fine ‘800. Nonostante l’accompagnamento coi fiati e con il pianoforte è un pezzo che langue nel suo incedere un po’ macchinoso.
L’idea conclusiva è che Fussell si sia scavato una nicchia appartata nella quale continuare il suo lavoro di recupero e riaggiustamento della tradizione. Tuttavia, oltre a licenziare un’opera sicuramente animata da buona intenzione e complessivamente di altrettanto buona fattura, permane l’impressione di un leggero disagio, di una mancata completezza, soprattutto nei brani di sua composizione che appaiono troppo semplificati, al di là di ogni desiderio di minimalismo volontario... La sensazione è che queste melodie possano sbiadire troppo velocemente dalla memoria, smarrendosi tra un ascolto e l’altro e portando con sé qualche zona d’ombra in più di quanto ci si sarebbe potuto aspettare.
Jake Xerses Fussell
Good and green again
CD e vinile Paradise of Bachelors 2022
Reperibile in streaming su Qobuz 24bit/ 96kHz e su Tidal 16bit/44kHz