Quando si dice il caso… Agosto 2020, siamo a Ystad, antica cittadina di circa ventimila abitanti sulla costa sud della Svezia. In questa località, un tempo covo di pirati e contrabbandieri, si tiene ogni anno un festival musicale creato nel 2010 dal pianista Jan Lundgren, assoluto nome di riguardo nell’ambito del jazz europeo, con una cinquantina di registrazioni discografiche alle spalle, sia come titolare che come coautore. Anche se oggi lungo queste coste non imperversano più le navi corsare, a poche ore dall’esibizione in trio di Lundgren, concerto programmato in forma classica – piano, contrabbasso, batteria – le restrizioni anti Covid impediscono al batterista di raggiungere i suoi compagni. In fretta e furia, allora, Lundgren pensa di sparigliare le carte e, insieme al contrabbassista Lars Danielsson, d’inventarsi una nuova formazione con il sax soprano di Emile Parisien, affermato musicista quarantenne francese, al posto della batteria. Un vero e proprio salto quantico, potremmo dire. Uno stravolgimento di programma e di progetto musicale, un azzardo per tre musicisti che non avevano mai suonato insieme. Il risultato, memorabile, lo possiamo ascoltare in questo Into the Night pubblicato nel 2021 e che riporta proprio il concerto di quell’agosto di un anno fa…
C’è stato probabilmente un cambiamento nella scaletta prevista, non avrebbe potuto essere altrimenti, ma il soprano di Parisien si è accomodato tra contrabbasso e batteria come se questo fosse sempre stato il suo posto, creandosi il giusto spazio in particolari nicchie melodicamente cantabili, dalla forte impronta classica ma ricche di risoluzioni jazzisticamente cangianti.
La stampa scandinava ha spesso inquadrato la musica di Lundgren in uno schema finalizzato, cioè quello di superare la matrice del jazz afroamericano, un abbandono della “fatherland”, quindi, a favore di una cultura musicale di matrice dichiaratamente europea. Francamente io non ho mai creduto a questo intento. Certo è che Lundgren non suona espressamente be-bop o blues ma ha conservato il meme di queste esperienze, che fanno comunque parte del suo bagaglio culturale, come ascolteremo nel corso di questo album. L’orientamento musicale del pianista svedese è principalmente guidato da melodie popolari, tradizionali, da fotogrammi New Age, ma soprattutto da quella musica classica che ha costituito parte importante della sua crescita come musicista e cioè Brahms e Schubert, come racconta la traccia 5. Ma ci sono, fra le sue corde, anche standard jazz, melodie al retrogusto ellingtoniano e, insomma, gran parte del patrimonio della musica dall’800 fino a buona parte del ’900. Se con Emile Parisien è stato un po’ come un battesimo del fuoco, non così è per la collaborazione tra Lundgren e Danielsson. Questi due artisti si conoscono bene, non soltanto per essere stati qualche anno fa in tour in Sardegna con Paolo Fresu ma per aver suonato anche in due dischi della ACT – Siggi Loch e la sua etichetta dalle copertine così riconoscibili è stato forse il loro mentore più importante – come King of Spain di Wolfgang Haffner del 2017 e Magnum Mysterium dello stesso Lundgren del 2007.
Il concerto ha inizio con un traditional svedese, Gladjens blomster, che tradotto può suonare come “fioritura gioiosa”. Entrano d’acchito il piano e il contrabbasso con qualche sospiro di sax prima della comparsa della melodia. Lundgren ne disegna il percorso, la canzone è gonfia di una foschia nostalgica mentre Parisien interferisce cercando, insieme alla punteggiatura del contrabbasso, di allargarne il senso. Si finisce all’unisono col tema melodico che rimane nella mente come un’eco. Asta è una dolcissima composizione di Danielsson dedicata a sua figlia e apparsa nel suo album Libera me del 2004. Esordisce in tonalità minore con un incipit che ricorda l’Allegretto della terza sinfonia di Brahms, ma sono solo tre le note “rubate” per poi seguire la propria linea, con l’autore che impugna l’archetto e imposta la melodia all’unisono con il piano e il sax. Secondariamente Parisien si lancia in una sequenza di passaggi senza mai forzare il fiato, con Lundgren che vi ricama sotto mantenendo saldo il timone della linea scritta e il contrabbasso, che torna solido e pieno sotto le dita di Danielsson. C’è anche lo spazio per una breve e consona digressione pianistica. È la volta, quindi, di Prèambule, traccia composta da Parisien, introdotta dalle note avvolgenti del contrabbasso. Il pezzo in questione è il più lungo, quasi dieci minuti, e anche in questa occasione la musica sembra oscillare sui tre piani già esaminati, cioè tra riverberi popolari, classicismi e sortite jazzistiche. È soprattutto Lundgren, in un suo assolo nella parte centrale del brano, a toccare tutti e tre questi riferimenti ed è solamente dal sesto minuto in poi che il gruppo vira decisamente verso atmosfere più jazz. Tutto è però rigorosamente misurato, senza andare sopra le righe e anche nei momenti più improvvisati non si perde mai il controllo, la musica mantiene i suoi angoli smussati ancorandosi a una generica sensibilità un po’ romantica. I do, originariamente scritta come accompagnamento di un lavoro teatrale, nel suo andamento delicato e affettuoso paga un tributo a standard del tipo di quelli firmati da Rodgers & Hart, per esempio, e ci si può trovare all’interno anche qualche fotogramma di George Winston, soprattutto nelle fasi iniziali. Il sax di Parisien, morbidissimo, accentua l’impressione di una classica melodia da Real Book. Comunque, un gran bel brano. Schubertauster è di Vincent Peirani, anch’egli artista della ACT, e proviene dal suo album Bella Epoque del 2014. Ovviamente si tratta di un omaggio al grande compositore viennese ma la melodia condotta dal sax ricorda paradossalmente più da vicino i compositori russi che verranno un secolo dopo il romanticismo. È il piano, infatti, a dovere sostenere, com’è giusto, la parte più consona alla figura di Schubert, creando quasi un controcanto alla melodia principale, ricco però di componenti tardobarocche, complicate da una serie veloce di scale, e forse Lundgren s’incespica proprio su una di queste, volteggiando sopra la tastiera verso il minuto 02:40. Poco male, però, il brano è spigliato e divertente e lo si ascolta con grande piacere. A dog named jazz è quasi un bozzetto scherzoso dedicato al cane di Lundgren. Questa volta l’omaggio è a favore del mainstream di impronta americana, con una linea melodica intrigante e spiritosa che si sviluppa quasi come fosse un blues. Lundgren trova un assolo fatto coi crismi del jazz moderno e successivamente propone un bel dialogo tra solismi, condotto in coppia da piano e sax prima della ripresa del tema, che scivola verso la chiusura. Into the night è la title track e anche questo brano ha un profilo maggiormente jazz e si trova a mezza strada tra il mood nordico che abbiamo imparato a conoscere, soprattutto dagli artisti della ACT, e quello classico di matrice statunitense. Siamo in modalità notturna, con un sax che affonda nella sensualità e un contrabbasso gonfio di armonici che va in direzione di Charlie Haden, con un bell’assolo circa a metà percorso. Il piano di Lundgren si mantiene morbido e sognante per trascolorare verso Ystad, che sembra l’ideale continuazione di Into the night. Si tratta di una traccia dedicata alla città dove risiede Lundgren e che ospita appunto il festival jazz da cui è stato registrato l’intero disco. Una gentile poesia musicale piena di naturale grazia espressiva che chiude in bellezza.
Into the night mantiene una costante tonalità crepuscolare e, seppur nato da una strana circostanza, che poteva essere un handicap, si è invece dimostrato privo di smagliature, intenso di emozione e capace di offrire di sé un’immagine disinvoltamente garbata.
Jan Lundgren
Into the night
CD e vinile ACT
Reperibile in streaming su Tidal 16 bit/44kHz e Qobuz 24bit/44kHz