Questo nuovo album di Jess Williamson, Time Ain't Accidental, è fondamentalmente il racconto di un viaggio in auto da Los Angeles a Marfa, nel Texas, che separa due storie d'amore, una giunta ormai al termine e una seconda appena sbocciata. Un recupero di sé che caratterizza l'appartenenza di questa autrice a quella giostra di nuovi autori americani dotati di una vena poetica piena di rigogliose fioriture, i cui semi sono da cercare nella tradizione country rock propriamente USA. Naturalmente vi compaiono anche tutti quei miti incentrati sulla strada, sulle distanze e, nel contempo, sul desiderio recondito di sparire dai radar, ogni tanto, per cercare nuove frontiere esistenziali.
Williamson è nata a Dallas e, dopo un iniziale gavetta svoltasi ad Austin e la pubblicazione dei primi album dal 2014 al 2016, si trasferisce in California e giunge oggi al quinto album da titolare. La sua musica, oltre alle radici sopra accennate, bazzica un pop sfuggente, servendosi di una pittura sentimentale che filtra il proprio bagaglio emotivo attraverso una scrittura densa di immagini allegoriche e di dettagli. Il doppio passo offerto da una produzione misurata, quella di Brad Cook, riesce nell'intento di non travalicare i fragili limiti che talora separano questi prodotti indie da una certa prevedibilità. La Williamson tratteggia un aristocratico profilo malinconico lungo tutto il percorso di questo album, ipotizzando che il Tempo e il Caso non siano dopo tutto così accidentali. Una valutazione consolatoria, mi verrebbe da dire e anche un filo narcisistica, immersa evidentemente in una visione decisamente antropocentrica della vita. Riflessioni filosofiche a parte, la Williamson dimostra una maturità che forse non emergeva in una forma così evidente nei suoi dischi precedenti. Una crescita non solo riferita al timbro vocale, più sicuro di sé, ma anche alla propria capacità d'imbracciare più strumenti e con la curiosa prerogativa di mantenere in sede d'incisione persino la traccia originaria di una drum machine realizzata con una semplice app del suo cellulare. L'arrangiamento, potremmo definirlo essenziale, non si avvale di solismi particolari ma piuttosto di una trama costruita da suoni efficaci e discreti che aiutano a concentrare il focus emotivo sull'espressività della voce della Williamson, non particolarmente appariscente ma comunque dotata di una certa naivetè e di una capacità ammiccante che talora mi ha fatto ricordare Kate Bush.

La title track Time Ain't Accidental è posta propria all'inizio dell'album. Pochi accordi di chitarra acustica, la drum machine dell'iPhone che si sovrappone alla voce e al coro. Si sommano quindi altre percussioni di batteria, un banjo di sottofondo e poi la comparsa dei fiati che formano una quinta teatrale su cui la chitarra e il banjo stesso vanno a legarsi. La melodia è accattivante quanto basta, il canto della Williamson si fa più acuto e più di gola quando tocca le note più alte. Il brano si muove in perfetto equilibrio tra country e pop, tra un riferimento a Raymond Carver e una riflessione su un nuovo incontro - “...guardami negli occhi, è tutto un esperimento strappato dal Tempo ma il Tempo non è casuale.”
Hunter segue la title track ed è forse una tra le tracce migliori. Batteria e chitarra sostengono una melodia confezionata come una ballata, cioè un semplice motivo che viene ripetuto più o meno uguale nel tempo. Qui la tradizione più pura dal punto di vista country-rock mi fa azzardare un paragone intenzionale con Neil Young, anche se in questo caso non ci sono chitarre distorte né batterie granitiche ma un clima più pop, con il piano che percuote gli ottavi con assoluta metodicità e una steel guitar che si lamenta con discrezione sullo sfondo. “...Il mio amore è puro come l'Universo e onesto come un posacenere...”, racconta la Williamson con un paragone letterariamente un po' inconsueto.
Chasing Spirits continua la falsariga precedente ma accentuando l'influenza più rockeggiante, deviando maggiormente verso una ballad melodicamente più dolce che rimanda allo stile di Jackson Browne. Si continua a salire con l'orecchiabilità ma anche, tutto sommato, con la qualità complessiva. Pianoforte, chitarre acustiche ben suonate e steel, contribuiscono al nitore un po' “lapideo”, a dire il vero, del brano stesso. Forse per l'affiorare di vecchi sentimenti ormai morti, descritti in questi versi, “...le mie canzoni d'amore sono diventate bugie, ora che l'Amore è andato”.
Tobacco Two Steps è un altro brano interessante, tutto lavorato sulla coppia pianoforte – che a dir la verità non fa altro che rimarcare pochi accordi – e chitarra con bottleneck, responsabile di uno dei pochissimi frammenti d'assolo nel finale che si dilunga poi sulla coda di un organo liturgico. La drum machine del cellulare riesce persino a essere suggestiva, mentre la Williamson canta che “...dove c'è solo un sole, c'è solo una luna e le domande aleggiano come fumo nell'aria”.

La traccia che segue, God in Everything, cita espressamente Dylan e Townes Van Zandt nel testo e sembra un po' la continuazione del brano precedente. La Williamson si è calata in pieno clima cantautorale e pare celebrare una malinconica notte texana immersa – per dirla come Battiato – in una sfuggente sensazione di “stranizza d'amuri”. Un bell'assolo di steel guitar è la classica ciliegina finale. Il testo, a dir la verità, non è molto comprensibile e sembra un collage d'immagini diverse, una sequenza di ricordi accostati tra loro senza limiti di coerenza: “...vedo Dio in ogni cosa, dalla mia finestra alla brezza, nella sua camera da letto al lume di candela...”.
L'introduzione a questa recensione alludeva all'intervallo temporale tra la fine d'un amore e la nascita di un altro e in questo senso si muove A Few Season, una ballata che racconta l'appiattimento di una esperienza sentimentale ma anche il cominciamento di qualcosa di nuovo, “...il nostro amore e la nostra vita lentamente sono scivolati via, il fuoco ha spostato il fuoco e il fuoco è divampato”. Deboluccia però la struttura musicale e pure un po' troppo lamentosa per i miei gusti.
Tutt'altro discorso per Topanga Two Step che rimanda a un passato di cantanti country-rock al femminile come Linda Ronstadt, ad esempio. La melodia portante è convincente e ben cantata, soprattutto “sentita” dalla sua autrice. Un bel coro si sovrappone alla voce solista mentre il brano è fatto letteralmente di niente, con qualche percussione, un organo e un accenno cordofono tra le righe. Ma c'è un sax che compare dalla metà in poi, con l'intento di rinforzare la base dell'accompagnamento. Bello anche il testo, soprattutto con i versi che seguono, “...ho inciampato come una bambina ma non sono più una bambina, ho indossato i miei stivali migliori per te e sto cadendo sulla tua pista da ballo”.
Something's in the Way è quasi paradossale perché mentre la sua struttura melodica di base è piuttosto povera e se vogliamo anche un po' banale, l'accompagnamento è reso prezioso da un clarino e un sax che s'intrecciano a offrire un colore caldo e scuro all'intera composizione. Inoltre, il controcanto della Williamson sembra quasi uno strumento elettronico in sottofondo. Un punto anche a favore della produzione, quindi, intenta a lavorare col bilancino per equilibrare pesi e misure.
Stampede è il brano più accorato dell'intero album che trasuda dolore da ogni verso, “...Ti ho amato oltre il Tempo, oltre ogni dolore, la lampada si è spezzata ma la luce rimane.” Peccato però che la canzone arranchi dietro le parole manifestando una scarsa consistenza strutturale e questa volta l'accompagnamento non compia il miracolo.
Con I'd Come to Your Call si va verso la pop music più pura ma anche più melensa ed è un vero peccato che l'album s'incagli proprio in vista del porto d'attracco.
Roads, meno male, mette le cose a posto. Sembra che Lucinda Williams stia spiando dietro la porta a suggerire un atteggiamento ben diverso rispetto alla traccia precedente. Una ballatona lenta e avvolgente, una dichiarazione amorosa esplicita e senza mezzi termini, “...ho un uragano nel mio cuore per te, una grandinata nella mia testa, un tornado che soffia attraverso le mie ossa”. Verrebbe da commentare, con un tono alla Humphrey Bogart: è l'Amore, bellezza…
Ovviamente da un testo letterario o poetico non ci si aspetta mai una corrispondenza ortonimica, ci sono sempre nuove e diverse parole per descrivere le cose del mondo. La Williamson procede quindi sulla doppia strada tipica di molti autori, versi con abbondanti figure retoriche da un lato e la musica dall'altro. Il difficile, come l'esperienza insegna, è accomunare entrambe le situazioni in un tutt'uno coerente, cosa che non sempre pare riuscire alla musicista texana. Tuttavia, c'è sincerità nel suo progetto, sono molti i momenti in cui la musica le scorre tra le dita con buona fluidità. Il rock è per lei una rifrazione momentanea, un passaggio in autostop per condurla nei suoi territori preferenziali segnati da testi alle volte poco interpretabili, altre volte più espliciti, ma musicalmente risolti, almeno in questo specifico contesto, in ossequio alla tradizione country americana.
Jess Williamson
Time Ain't Accidental
CD e LP Mexican Summer 2023
Reperibile in streaming su Qobuz 24bit/96kHz e su Tidal 16bit/44kHz