Ricordate quel disco di John Mayall uscito nel ’72 che si chiamava Jazz Blues Fusion? Al di là di quella sofisticata naivetè frutto dell’innamoramento britannico del blues d’oltre Atlantico, quel titolo, così appropriato allora, lo è ancor di più per ciò che riguarda questo Squint di Julian Lage. Si tratta, infatti, del dodicesimo disco del chitarrista americano appena editato dalla Blue Note. Lage, infatti, non è propriamente un jazzista tutto d’un pezzo e nemmeno oserei definirlo un puro bluesman. È invece una riuscitissima miscela di entrambe le caratteristiche. Manca però ancora qualcosa a questo cocktail e cioè un certo beat di matrice rock’n’roll, qualche aroma alla Chet Atkins, un pizzico di Duane Eddy, insomma tutto quello che ci può portare a tratti indietro nel tempo, tanto per riassumere più o meno 70 anni di storia della musica americana. In realtà lo stesso Lage riconosce un tributo formale all’eclettismo di Jim Hall, ma i suoi maestri spirituali, a suo dire, si riferiscono a strumentisti classici come Julian Bream – provate a riascoltarvi 40’s su World’s fair del 2015 – o addirittura a pianisti come Keith Jarrett: del resto è nota la collaborazione del nostro con Fred Hersch.
Da parte mia sono convinto che Lage sia stato influenzato maggiormente da Bill Frisell, con cui collaborò nella realizzazione di Virtue di John Zorn. Infatti, con il chitarrismo di Frisell, Lage condivide una controllata imprevedibilità, la brillante policromia armonica e quel certo gusto di abbandonarsi, alle volte, ai malinconici pensieri pieni di nuvole caratteristici del chitarrista di Baltimora.
La storia di Julian Lage è quella di un bambino prodigio, nato in California trentaquattro anni fa, che all’età di otto anni si esibisce con Carlos Santana, Pat Metheny, Toots Thielemans, a quindici insegna jazz alla Stanford University e a sedici anni viene chiamato da Gary Burton per una collaborazione. In questo professionale rapporto adolescenziale con la chitarra, Lage ricorda la figura di un altro prodigioso ragazzino francese, quel Bireli Lagrene d’origine manouche che prenderà poi altre strade ma restando sempre in un ambito jazz, se pur anch’esso abbondantemente ibridato da tradizionali influssi gitani.

In questo lavoro, Squint, Lage si trova alle volte in solitaria ma è più spesso accompagnato dal bassista Jorge Roeder e dal batterista Dave King, quest’ultimo membro dei Bad Plus. L’effetto di questa musica, nel suo complesso, conserva sempre una certa dolcezza di fondo, anche nei momenti più energici, creando la piacevole sensazione di una lente che cerchi d’ingrandire molte cose riassumendole tutte nella medesima sfocatura. Il brano di apertura, Etude, è uno splendido solo di chitarra, a metà strada tra reminiscenze classiche e rivisitazioni jazz, mentre Lage percorre tutta la tastiera in lungo e in largo con grande naturalezza. C’è anche un accenno, non so quanto volontario, a You only live twice e all’immarcescibile saga di James Bond. Boo’s blues rivela dal titolo quello che è, ma le dodici battute sono nascoste da una parvenza di rock-jazz a basso voltaggio. Buono l’assolo di mezzo, elegante senza eccessi didascalici. Con Squint compare una distorsione naturale, cioè legata alla risposta dell’amplificatore. La mano si fa un poco più pesante, mentre basso e batteria si dilettano nello swing e scrivono il loro cotè jazzistico stando bene attenti a non soverchiare la chitarra. Saint Rose è la città natale di Lage e forse, per via delle naturali reminiscenze adolescenziali, si trova a essere il brano più rock dell’intero disco. Però qui entra di tutto, da Frisell ad Atkins, giù giù fino agli Shadows. La chitarra si diverte senza ritegno ed è quello che mi piace di più di questo chitarrista, cioè una certa sua impudenza. Lage suona di tutto, infatti, da quello che più dà piacere, allontanando la noia, fino alle proprie riflessioni più intime ed estemporanee. Emily è una traccia di Johnny Mercer e qui il trio assomiglia ad altre formazioni più pianistiche storicamente impregnate di romanticismo. Se Bill Evans avesse suonato la chitarra probabilmente – arrischio – si sarebbe espresso attraverso parametri paragonabili a questi. L’assolo di Jorge Roeder è un fiume in secca, un basso asciutto a scandire i battiti delle note, con quella calma olimpica nella gestione emozionale, vagamente cool, che è un’altra caratteristica presente in tutto l’album e in particolare in un brano come questo. Familiar Flower è dedicato a Charles Lloyd ed evidentemente, in omaggio all’ottuagenario ma modernissimo maestro, la musica si fa più caleidoscopica, più contemporanea e sembra dimenticarsi dell’ombra del passato. Ottimo il lavoro del batterista, pronto a spezzettare i ritmi e a creare le idonee angolosità espressive. Con Day and Age, terminati gli omaggi, si rientra nelle sonorità già collaudate quasi country alla Bill Frisell. Un ascolto poco meno che distratto farebbe tranquillamente cadere nel tranello identificativo anche il più attento osservatore: si tratta del chitarrista californiano o di quello del Maryland? Quiet like a fuse ha un andamento un po’ misterioso, accentuato dai colpi di note basse che seguono l’intro in solo di Lage. Brano rarefatto, in cui la chitarra può allargarsi in una rete di note improvvisate, anche se qui il mordente viene meno e i tempi rallentano eccessivamente. Lage cerca l’atmosfera ipnotica ma trova solo una strada meno brillante e spesso discontinua. Short Form è un piccolo capolavoro di lacerante bellezza con un grande accompagnamento percussivo di un Dave King tirato a lucido. L’assolo di chitarra è da manuale d’improvvisazione, formalmente circoscritto in poche, efficaci e ficcanti note. Mi piace meno Twilight surfer, molto simile a certe cose di Chet Atkins nella timbrica e nella regolarità ritmica. Il disco si chiude con un brano di Billy Hill, Call of the Canyon. Lage cerca qui di mantenere, per quanto possibile, l’integrità della canzone salvaguardandone la melodia. La chitarra si asciuga d’ogni orpello e gioca su qualche veloce scala nel momento legato all’improvvisazione per terminare, cadenzando, in un tempo che più classico non si può.
Un gran bel lavoro, nel complesso, questo Squint. Un disco pieno di positività e di brillantezza, che vive senza falsi understatement, ma che vuole mantenersi comunque in un ambito di composta discrezione. Un jazz-blues come lo fanno i bianchi, ovviamente, con tutti i limiti etnici possibili, ma col vantaggio di essere esente da qualsiasi eccesso di rabbia e di tristezza. Non saprei dire, però, se quest’ultima osservazione sia da considerarsi uno svantaggio o un privilegio…
Julian Lage
Squint
CD e vinile Blue Note 2021
Reperibile in streaming su Tidal Master MQA e Qobuz Hi-Res 24bit/96kHz