Ci sono copertine di dischi che nel tempo sono diventate iconiche. Riconoscibili tra mille altre, rimandano immediatamente a un musicista e a un periodo storico che in qualche modo ci ha coinvolto più o meno direttamente. Il ritratto quasi naive dei due artisti britannici Kathryn Williams e Dan Willson – da non confondere con il quasi omonimo Dan Wilson, con una “elle” sola, musicista statunitense – coautori di un delizioso album di pop rock, potrebbe diventare rappresentativo per quest'epoca così incerta in cui pare obbligatorio affermare di “metterci la faccia” su quello che si dice o che si fa, salvo poi dimenticarsene il giorno successivo. Ma il volto e il corpo di questi due musicisti, lei di Liverpool e lui scozzese di Edimburgo, che con la loro postura frontale quasi ieratica si mostrano per quello che sono, resteranno indelebilmente dipinti sulla copertina del loro album, senza fraintendimenti e in tutta la propria immediatezza. Il risultato di questo peculiare e artistico accoppiamento è l'album di cui ci occupiamo oggi, Willson Williams.
Kathryn Williams e Dan Willson – aka Withered Hand, ovvero Mano Rattrappita – nati nello stesso anno, 1974, ed entrambi con una carriera consolidata alle spalle, possiedono un timbro vocale assai simile, tanto che alle volte non si riesce nettamente a distinguere una voce dall'altra. Il loro curioso modo d'interagire nel canto, nonostante i due si completino vicendevolmente a meraviglia, sembra che alle volte voglia suddividersi e distribuirsi in misura eguale in ciascuna delle strofe di ogni singola canzone, del tipo “una a me e una a te”, mentre in altri casi scommette su sovrapposizioni corali e contrappunti. Le canzoni così ottenute puntano a esprimersi con gentilezza, senza ambiguità di sorta, lasciando trasparire l'adulta innocenza di chi lavora con pregiata onestà d'intenti. Niente oleografie country, per capirci, né tantomeno una dimostrativa prova di eleganza fine a sé stessa. Infatti, i due autori si differenziano dalle tante uscite discografiche serializzate, per la mano felice nella scrittura di ballate irradiate di velata dolcezza, spesso turbate da una forma sbiadita di malinconia ma tutte o quasi vitalizzate da ritornelli accattivanti.
Il primo riferimento a cui ho pensato, dato che siamo al di qua dell'Atlantico, è stato il famoso album di Richard e Linda Thompson, I Want to See the Bright Lights Tonight del 1974, certamente più elettrico e cattivo di quello dei due autori che consideriamo oggi ma, si sa, quelli erano altri tempi. Williams e Willson oltre a cantare – e molto bene – s'accompagnano con la chitarra acustica. Però in questo album non sono soli, c'è anzi una folta partecipazione di artisti conosciuti che s'impegnano in altri strumenti, oltre probabilmente ad alcuni session men meno noti. Ad esempio, all'organo, per altro molto incidente in questo lavoro, troviamo Chris Geddes dei Belle & Sebastian, Louis Abbott degli Admiral Fallow alla batteria, Graeme Smillie degli Arab Strap al basso, Kris Drever dei Lau come altro chitarrista, Pete Harvey dei Modern Studies al violoncello e Kenny Anderson, alias King Creosote, alla fisarmonica.
Nonostante l'album sia completamente “british” – anzi, “scottish”, per essere più precisi – nel suo complesso suona piuttosto americano, a tal punto che ho avuto l'impressione di trovarmi di fronte a un interessante, smaliziato ibrido tra la dimensione indubbiamente “popular” di questi brani mescolata con qualche aroma dell'attuale folk rock scozzese e un certo modo d'intendere le ballad alla Neil Young, quindi fortemente cadenzate da scanditi accompagnamenti ritmici.

Arrow è il biglietto da visita di questo album, una tipica ballata all'americana, dal passo lento e solenne, che parla di seguire frecce “che mirano all'oro”. L'intreccio di chitarre acustiche viene stigmatizzato da un tetragono 4/4, con le due voci che si inseguono, conoscendosi reciprocamente attraverso i loro respiri e amalgamandosi con il suono di un violoncello in sottofondo, che tra l'altro non riesco a capire se naturale o campionato.
Grace è tra i brani migliori del disco. Il ritmo di base è lo stesso, grosso modo, del pezzo precedente, ma la traccia melodica appare più elaborata, così come sono ben presenti gli acuti vibranti della Williams. Il testo va giù pesante dal punto di vista emotivo: “hai mai amato qualcuno e lasciato non cantata la canzone dell'amore?”. Due buone chitarre elettriche aiutano a far fluire all'indietro il fiume della vita e sintonizzano il brano attorno al senso del rimpianto, sentimento inevitabile per chiunque, soprattutto per coloro che affermano di non averne.
Ru4 Real ha un andamento “dylaniano”, da epoca della presenza di The Band o meglio ancora del periodo Pat Garrett & Billy the Kid, quando si bussava ancora alle porte del paradiso. Il tocco “sixties” s'inserisce nella semplice costruzione armonica molto gradevolmente pop, con il carnoso organo che accompagna il sistema basso-batteria- chitarre acustiche. Brano estivo, svagato, servito su un piatto di dolcezze contornate da tastiere e da secchi accordi elettrici.
Our Best è stata la prima scrittura in ordine temporale composta dal duo. Si tratta di una ballata acustica dal sapore un po' dolciastro e nonostante la presenza di un organo scuro e di qualche accordo cangiante di chitarra elettrica, vive e sopravvive per via dell'indiscussa abilità canora del duo.
Shelf è un grazioso brano pop, sullo stile di Belle & Sebastian, colmo di mellotron e buoni sentimenti. Ma è anche una delle piste migliori per apprezzare le sottili differenze tra le due voci, il timbro sottile di quella maschile e la sognante vaporosità di quella femminile. Un solluchero per adolescenti chiusi nelle loro camerette durante i giorni di pioggia ma anche un piacevole momento di riflessione per adulti meditabondi.

Wish sembra alludere alla necessità di ricordare le persone scomparse, quelle che un tempo erano a noi così vicine. Una delle motivazioni accessorie che hanno favorito l'approccio a quest'album è stato proprio il bisogno di raccontare il dolore della perdita che ha accomunato i due autori, ciascuno con il proprio carico di smarrimenti. Ma ciò che rende quasi sublime questo brano sono gli ultimi secondi finali quando parte un controcanto corale che mi ha letteralmente trascinato indietro nel Tempo, ai fasti del passato folk rock britannico degli indimenticati Steeley Span e Fairport Convention.
Sweetest Wine è una ballata country resa ottimamente dall'usuale incrocio vocale ad alti livelli operato dal duo. “Pensiamo sempre di avere più tempo”, si dice a un certo punto in questo testo quasi filosofico, e poi “dai, appassisci sulla vite”, un invito a invecchiare per avere il vino più dolce, il passito zuccherino che si ottiene quando l'uva resta più a lungo attaccata alla pianta. Insomma, esattamente il contrario del credo giovanilista, con la storiella della fiamma e della candela che si esaurisce prima se brucia più intensamente...
Arriviamo a Weekend, che sembra mostrare una visione piuttosto critica circa l'obbligo al divertimento del sabato. ”Non appartengo al fine settimana”, racconta il refrain, con il doo-doo irridente del coro. Il brano si allinea ancora verso l'asse Belle & Sebastian ma resta insipido, nonostante la volontà di renderlo gradevolmente leggero e l'utilizzo della fisarmonica che cerca di dargli una dignità folk che purtroppo non riesce a raggiungere.
Sing Out è una cover di un brano di Cat Stevens. In realtà il titolo originale è If You Want to Sing Out, Sing Out, traccia che entrò a far parte del soundtrack del film di culto Harold e Maude del 1971. Il pezzo è sempre stato obiettivamente spigliato e spumeggiante e in questa veste rivisitata in duo è ancora meglio. Ma la mia personale idiosincrasia per Cat Stevens, fin dai tempi antecedenti alla conversione islamica, m'impedisce ogni ulteriore apprezzamento.
Elvis è un lentaccio da mattonella dedicato non a Presley ma a Costello e chi sa se il londinese ne sarà poi così contento.
Invece Big Nothing è un sussulto di rock, con un irresistibile power riff di chitarra distorta, preceduto da un breve parlato in cui una voce preregistrata medita sul trascorrere del tempo. Un finale contromano, ma comunque in grado di lasciarci un buon ricordo complessivo.

Testi assennati e musica tendenzialmente tranquilla, passaggi vocali ardui ma risolti con tecnica ed emozione. Sono gli elementi essenziali che permettono un giudizio personale ampiamente positivo di questo album, nonostante inevitabili e fisiologiche cadute di tono. Magari non ci si infiamma per un lavoro come questo ma non si può fare a meno di gradire da una parte l'abilità vocale e il rispetto reciproco che caratterizzano le due voci e dall'altra la sintesi strumentale equilibrata degli arrangiamenti. Il senso del tragico – rimpianto, lutti e abbandoni – viene ad essere sublimato in una veste leggiadra e delicata, per cui l'album si presta ad essere centellinato e apprezzato così, sorso dopo sorso.
*Essendo Dan Wilson cresciuto in una famiglia di Testimoni di Geova, doveva conoscere bene i vangeli. C'è un episodio, raccontato in tre di questi, riguardo a un miracolo che fece Gesù, risanando un poveraccio con una mano rattrappita da una lesione. L'episodio fece scalpore presso gli ebrei non tanto per il risultato ottenuto – mica roba da poco – ma perché l'intervento terapeutico fu compiuto il sabato, giorno assolutamente inadatto per far qualsiasi cosa, tanto più davanti a dei sacerdoti ortodossi. Non è ufficiale come spiegazione ma ho come l'impressione che questo racconto abbia in qualche modo contribuito alla scelta del soprannome di Willson, anche se ne ignoro le motivazioni profonde.
Kathryn Williams & Withered Hand
Willson Williams
CD e LP One Little Indipendent 2024
Disponibile in streaming su Qobuz 24bit/48kHz e Tidal qualità max fino a 24bit/192kHz