Indubbiamente è il momento dei King Hannah. Solo un album alle spalle, un'unica tournée – però negli USA – vissuta con tutta la curiosità di un duo europeo al cospetto dell'enigmatico Paese americano. Ma evidentemente questo basta e avanza ai media musicali di mezzo mondo al fine di occuparsi di questa coppia artistica che viene da Liverpool. L'occasione è ghiotta perché l'interesse verso la cantante Hannah Merrick e il chitarrista Craig Whittle s'accende in concomitanza dell'uscita del loro secondo album, il notevole Big Swimmer.
Nonostante il passaporto britannico, i King Hannah, artisticamente parlando, non paiono molto scalfiti da altro interesse che non sia la musica statunitense. Si tratta di una lunga scia d'influenze che nascono lontane nel tempo, dalle suggestioni newyorkesi dei Velvet Underground e dalle psichedeliche stagioni californiane degli ultimi anni '60 fino ad arrivare alle nebulose atmosfere elettriche dei giorni – quasi – nostri, sul modello dei Dream Syndacate, dei Sonic Youth e magari anche dei Crazy Horse quando capita loro d'accompagnare il Neil Young più polveroso possibile. Il canto ma anche il frequente parlato recitato della Merrick è notevole, molto affascinante, dalle tonalità misteriose e riverberanti. Mi ha ricordato, oltre alle assonanze con Kim Gordon, anche la voce di Patricia Barber, pur se il genere musicale è lontanissimo dalla pianista di Chicago. Mentre la chitarra di Whittle, quasi sempre marcatamente distorta, mi rimanda, tra gli altri, allo stile di Jack White. Tutto questo per dire che i King Hannah, pur non possedendo i crismi dell'originalità – qualità rarissima, oggi come oggi, soprattutto nell'ambito della musica rock – sanno costruire un album seducente, magnetico, dotato di una propria lux ermetica da addebitare, oltre che a loro stessi, al pulito e rigoroso lavoro di produzione nonché di “musicista aggiunto” da parte di Ali Chant, che in passato ha curato alcuni album ad esempio di PJ Harvey, Giant Sands e Algiers.
Le atmosfere che emergono dai brani sono spesso oniriche, evocative, alle volte cupe. I loro testi raccontano con smaliziato distacco ciò che il duo ha potuto osservare e annotare nel proprio tour attraverso gli Stati Uniti. Le strutture armoniche sono semplici e d'effetto, caratterizzate da melodie suadenti intercalate dalle traiettorie turbolente della chitarra volutamente sporca di Whittle. Quasi una musica cinematografica che mostra l'alternanza di paesaggi urbani ad altri spazi più naturali, come in una sorta di viaggio on the road. Ma è anche, sotto sotto, un tributo dissimulato alla storia di un sessantennio di musica rock americana, un omaggio forse non esplicitamente dichiarato ma reso manifesto sotto forma di esercizio grafologico e stilistico, senza nulla togliere al valore compositivo dei due autori inglesi.
L'album si avvale, al di là della presenza dei due protagonisti – la Merrick la troviamo oltre alla voce anche alla chitarra acustica e Whittle occasionalmente anche alle tastiere – del batterista Jake Lipiec, del bassista e tastierista Conor O'Shea insieme alla voce aggiunta in un paio d'occasioni della cantante e attrice Sharon Van Etten. Collaborano inoltre Ted White al synth e Alec Brits alle percussioni.

Il primo brano, la title track Big Swimmer, comincia come una ballata acustica la cui melodia fa venire alla mente l'attacco – ma solo quello – di After the Gold Rush. Entra poi la chitarra distorta di Whittle con basso e batteria e il pezzo si trasforma in una novella Sweet Jane cinquattraquattro anni dopo... La Von Etten appare in un ritaglio come doppia voce.
Si preme sull'acceleratore quando si entra nel clima di New York, Let's Do Nothing, con la voce della Merrick in bilico tra Laurie Anderson e la Gordon della Gioventù Sonica. Colloqui informali sulla chitarra rovinosa e riffante di Whittle che fa il giusto rumore, batteria che pesta i piedi e scandisce il ritmo secco della città.
The Mattress è tra i brani decisamente più psichedelici dell'album, con l'evocazione di un tema addirittura vicino ai Jefferson Airplane e l'immagine di un materasso che volteggia sopra le loro, e le nostre, teste. Ma al di là dell'oggettiva raffigurazione, un po' paradossale e comica – a meno che il termine “mattress” alluda a qualcosa che non conosco per ignoranza, non solo generazionale – la traccia è una delle meglio risolte, non solo per la bellezza sensuale della voce della cantante, ma anche per l'essenziale e latentemente lirico accompagnamento della band, in cui schizzano suoni chitarristici a 360° in uno spazio cucito tra veglia e scivolamento ipnagogico.
Milk Boy (I love You) è una heavy ballad dal suono vigoroso e frammentato da uno strascicante parlato della Merrick che sfocia poi in un refrain melodico dai toni drammaticamente intensi. Da notare come la cantante dilati le vocali allungandole con un certo retrogusto provocatoriamente erotico.
Suddenly, Your Hand resta ancora nel recinto delle ballad ma questa volta il clima è molto addolcito, sospirato dalla bella aria melodica, insidiosamente impostata con la solita sensualità dalla cantante. L'aumento distorsivo dell'ultima parte del brano non tradisce, anzi, valorizza l'assetto complessivo malinconico e sfuggente.
Somewhere, Near El Paso scorre su circa otto minuti di musica che mutano direzione dopo un lungo, estenuante inizio ipnotico, ma con il progredire del brano aumenta la saturazione della chitarra di Whittle. Traccia oscura, alterata dalle pennate reiterate sullo strumento che lentamente si porta verso il finale rabbioso alla Sub Pop, come in un'obliqua favola noir.
Ancora immersa in piena atmosfera grunge è Lily Pad con sovraincisioni di chitarre, teatri d'ombre distorte e guazzabuglio di rumore vivido e fluviale. Tra i brani meno riusciti, se non fosse per la scossa delle chitarre impugnate come alabarde verso il finale.
Davey Says è orecchiabilmente irresistibile con le voci dei due autori sovrapposte. Una pop rock song con mash up chitarristico di grande qualità e un inciso che mi ha ricordato i Feelies, anche se questi ultimi apparivano decisamente più morbidi.
Scully è un breve intermezzo solo suonato, né infamia né lode, che si muove ripetutamente senza rischiare tra I e IV grado armonico.
This Wasn't Intentional rivede ancora la voce della Von Etten come supporto armonico in questa ballad un po' moscia, alla maniera dei Cowboy Junkies quando incappano nella loro vena più soporifera...
John Prine on the Radio recupera un certo grado di rilassata serenità appoggiandosi a una chitarra acustica e stemperandosi – dice il testo – in cucina con un polletto che cuoce nel forno e una canzone dello scomparso John Prine che ammicca da un apparecchio radio.

Non è tempo di verbose considerazioni ideologiche riguardo questo Big Swimmer. Nemmeno c'è il dubbio che la nostalgia muova, a tratti anche senza tanto pudore, il meccanismo intimo di questo album. Ma la disarmante intensità vocale e una certa teatralità espressiva della Merrick, unita alle spatolate decise della chitarra di Whittle, sono in grado di emettere radiazioni ionizzanti che agiscono sul nostro DNA, fino a provocarne qualche episodica mutazione. E dato che il codice genetico degli ascoltatori appassionati è sempre ben disposto a relazionarsi alle contingenze ambientali, il nostro livello di adattamento segue il passo dei tempi, qualunque ne sia la declinazione qualitativa.
King Hannah
Big Swimmer
CD e LP City Slang 2024
Disponibile in streaming su Qobuz 24bit/96kHz e Tidal qualità max fino a 24bit/192kHz