Fate conto di poter riascoltare un Lou Reed redivivo, preso e trapiantato nell'interregno spaziale tra Londra e Liverpool e che spesso si trovi a percorrere la tratta ferroviaria di 300 km tra le due città, rispettivamente quella di nascita e residenza. E che durante questo tragitto, magari nelle ore notturne, cerchi di riflettere sul proprio stato esistenziale. Un va e vieni dal mondo onirico, con il riflesso della propria immagine sul finestrino sovrapposta al paesaggio che scivola veloce davanti agli occhi. Il sentimento del sacro si è definitivamente separato dall'umanità e King Krule, artista quasi trentenne britannico, in questo suo ultimo album Space Heavy ne è profondamente consapevole, allo stesso modo come il compianto Lou aveva radiografato la realtà newyorkese rilevandone anzitempo l'incipiente mal di vivere. In questo caso, però, mancano le tentazioni autolesioniste e i demoni distruttivi che tormentavano l'artista americano.
King Krule, nom de plume che cela parte dell'identità di Archy Marshall, è invece una sorta di cronista alle prese con articoli di fondo che raccontano la dinamica della sua realtà interiore, in perenne dis-equilibrio tra immagini urbane e riflessioni disincantate. Le sue canzoni tradiscono uno pseudo-romanticismo dal sapore aspro, acidulo, che trasmette un retrogusto post-punk con qualche sfumatura nichilista. Ho già rilevato un paragone con i Velvet Underground attraverso il riflesso “loureediano” ma vi aggiungerei qualcosa in più, soprattutto nell'utilizzo della voce, con il compianto Kevin Ayers per quei tratti spesso arrotondati della timbrica vocale e con Damon Albarn, per questioni di età, di stile e del modo di porgere canzoni rugginose sbiadendone i toni. Un ultimo riferimento, nell'uso straniante del sax, lo riserverei a favore dei mai dimenticati Morphine.
Krule è arrivato al quinto disco pubblicato in dieci anni, quindi mantenendo una buona media non ossessivamente produttiva e dimostrando una certa ponderatezza nella scelta degli album. Space Heavy si snoda attraverso una sequenza temporale di una quindicina di brani che suonano come ballate acidamente squinternate ora cupe, ora pop, con qualche riferimento jazzy malaticcio ma che dimostra una bellezza scabra, essenziale, desublimata da ogni tentativo di trasformarla in qualcosa d'altro che non sia propriamente sé stessa. Una musica in trance, cioè creatasi in un transire, nell'attraversamento non solo da due luoghi geograficamente distanti ma tra due stati d'animo polari che si muovono tra veglia e sonnolenza astenica.
King Krule suona chitarra e tastiere ed accanto a lui si muovono Ignacio Salvadores al sax, George Bass alla batteria, James Wilson al basso e Jack Towell con una seconda chitarra. Si ascoltano frequentemente degli archi che onestamente non so se accreditare come naturali o prodotti da tastiere elettroniche. Inoltre, in un brano, compare la voce della cantante statunitense Raveena Aurora.
Inizia il viaggio con Flimsier, la prima ballata dell'album a ostentare un tono quasi luttuoso. Un suono elettronico iniziale pare il fischio di un treno. Tutto avviene con un giro di chitarra moderatamente distorte con l'incedere lento della batteria su cui la voce malferma di Krule racconta l'esfoliarsi di una storia d'amore. Il brano vive di piccoli stacchi e ritorni su sé stesso in aggiunta a una timbrica chitarristica via via più distorta. Più lo si ascolta, con la sua aria di composta desolazione e solitudine notturna, più questo pezzo cresce nell'animo e non è avvenimento così frequente nella musica rock contemporanea.
Pink Shell si presenta con una corsa di basso elettrico iniziale che mi rimanda ai tempi dell'esordio del post-punk, quello di Joe Jackson prima maniera del periodo Look Sharp! Squisitamente musica inglese ma con una folata di vento USA che soffia inaspettata, prima con un sax suonato come fosse in un ipotetico disco di Zappa, poi con una chitarra twangy che ogni tanto appare con le sue lontane evocazioni tra il canto quasi salmodiante di Krule.
Con Seaforth si solletica la ballata pop dove la timbrica di Krule sembra proprio quella di calda di Ayers, tanto che non saremmo stupiti più di tanto se lo ascoltassimo chiedere, con educato accento indiscutibilmente british, “May I?”. Le chitarre arpeggiano aggraziate e volatili e chissà dove finisce mai il mal d'amore, ingenuamente e adolescenzialmente nascosto dalla melodia accattivante di questa canzone che, a ben vedere, è un continuo ritornello, un dromos che ritorna per sua natura sempre allo stesso punto di partenza. Si finisce tra la risacca marina e il grido dei gabbiani, proprio come nella Coney Island di “reediana” memoria.
That is my Life, That is Yours s'incupisce in un canto svagato che ha in sé un seme malevolo. Ma quando sembra che il brano si avvii verso un languido torpore irrompono i sibili tramestanti del sax, come un vento improvviso pieno di rabbia repressa. Poi tutto rientra tra gli arpeggi di chitarra che si ripetono fino all'esaurimento, assorbendosi in un giro accomodante di basso.
Tortoise of Indipendency è un malinconico abbandono a sé stessi, con un canto accompagnato qui e là da una seconda voce e da una chitarra che pare quella di Ben Watt per la scelta non banale di una sequenza di accordi all'aroma di jazz.
Empty Stomach Space Cadet sembra provenire da un album segreto di Syd Barrett, tra effetti elettronici e voci riverberanti sullo sfondo, come un appunto psichedelico griffato su un foglietto di carta e poi recuperato casualmente.
Flimsy è un frammento che possiede qualche velleità orchestrale tra suoni d'archi, voci di bimbo e chitarre distorte.
Hamburgerphobia è uno spezzatino di ritmi frastagliati e scritture dissonanti, un parlato insistente e vagamente anfetaminico ma molto up to date. Si struttura a macchie in bianco e nero tra suoni combinati di chitarra, ondulazioni di sax ed elettronica.
From the Swamp è un avvincente passaggio tra un rock filtrato tra le maglie del post-punk, con un basso di quelli che s'attaccano all'epigastrio e riff chitarristici che s'appoggiano a ritmi pieni e pari. Qualche tentativo d'assolo subito abortito sia di sax e chitarra per la scelta di mantenere la stessa, costante tensione ritmica dall'inizio alla fine.
Seagirl si affida alla voce della Raveena in un lento vortice elettroacustico in stile Cocteau Twins. Il brano è colmo di riverberi, echi e voci sospirose ma regge bene con un basso e batteria che mantengono il sense of drama in una spirale di materica sensualità.
Our Vacuum sembra immergersi in quell'atmosfera di oscuro romanticismo che aleggia un po' per tutto l'album – “...Lo spazio tra di noi è oscuro, nella gabbia del tuo cuore” – ma non è tutto così lineare come sembra. Il brano sbanda, sembra dissolversi nel vuoto senza giungere ad alcuna conclusione logica, come almeno l'inizio faceva intuire.
La title track Space Heavy inizia come una ballata semplificata che lavora su due-tre accordi e qualche aggiunta di colore ma poi il ritmo accelera e si fa rabbioso, il canto di Krule sbrocca e con lui l'accompagnamento andando ad arrampicarsi in un coraggioso cambio di tonalità. Poi tutto rientra nella magmatica calma iniziale.
When Vanishing si costruisce su un'affascinante traccia di archi e sulla voce in altalena della Raveena, con un sax che disegna qualche nota blues, arpeggi di chitarra e qualche indecifrabile e disturbante rumore sotterraneo.
If Only it Was Warmth, dove si dice “...ho camminato due ore attraverso uno spazio svuotato per riempirne il vuoto”, è una lamentazione rarefatta, costruita su misteriose simbologie letterarie e sonore, molto vicina ai climi barrettiani, forse anche troppo monocorde.
King Krule incarna una personalissima estetica musicale, in parte votata a una sospensione costantemente fluttuante nello stato ipnagogico dove satelliti rock-pop, pulviscolo di jazz e meteoriti cantautorali vengono attratti da un campo gravitazionale cupo e perentorio. Qui siamo in una dimensione anteriore a ogni giudizio di valore caratteriale, dove la realtà si mescola con riflessioni idonee al lettino dello psicoanalista. Non spetta a noi fare un'analisi psicologica ma, dal punto di vista strettamente musicale, prendiamo atto di una spigolosa spontaneità e di un certo gusto, tutt'altro che banale, nel mescolare impressioni, chitarre sognanti e/sfrigolanti, un canto un po' delirante e un sax molto espressivo, anche se confinato per esigenze progettuali, in poche pur efficaci parentesi occasionali.
King Krule
Space Heavy
CD e LP XL Recordings 2023
Reperibile in streaming su Qobuz 24bit/44kHz e Tidal 16 bit/44kHz