Macchine da musica | seconda parte

Il progetto come opera d'arte e sfida intellettuale
08.09.2011

 

Alla prima parte di questo articolo

 

Riassunto e morale in un paio di righe della puntata precedente: la progettazione di una qualunque macchina, per esempio di una macchina per la registrazione e la riproduzione della musica, inizia dalla definizione degli obiettivi di progetto. Questi obiettivi sono ordinati secondo scale di valori. I valori, così come la scelta dei mezzi e delle modalità per il raggiungimento degli obiettivi, riflettono la personalità dei progettisti. E delle aziende. Le cosiddette nicchie di mercato non dovrebbero confondersi: gli acquirenti di una Alfa Romeo, almeno una volta, non si sarebbero mai comprati una Volvo.

 

Oddio, qui sembro più ottimista del portatore sano di ottimismo Roberto Rocchi. Le grandi aziende possono essere state fondate da grandi progettisti. O da grandi personalità in grado di reclutarli e motivarli. Quando e se divengono adulte, se i pattern di informazione che hanno generato prodotti rivoluzionari, innovativi o semplicemente di successo lo hanno consentito, di solito vengono guidate dagli uomini del marketing. O, se va bene, dai product manager.

 

In questo naturalmente non c’è nulla di male. Solo che raramente un assetto aziendale “adulto” produce autentica innovazione. Perché, ovviamente, diviene prioritaria la protezione dell’azienda medesima.
Per raccontarla alla maniera de Le Schtroumpf Grognon, Grouchy Smurf in inglese, qui in Italia il puffo Brontolone, "io odio la Bower & Wilkins". E, per evitare immediatamente qualunque polemica, "la odio" per ragioni puramente sentimentali, miste ad ammirazione e stima.

 

I fatti risalgono a più di trent'anni fa. A diciotto anni, con la maggiore età, mi toccava un "regalone" di compleanno. E sarebbe stato assai ragionevole pensare a una utilitaria di seconda mano: la conquista della libertà. Io chiesi di poter acquistare una coppia di Dahlquist DQ-10, di seconda mano anche queste, e fui accontentato. Certo, dopo essermi garantito, non ero mica scemo, l’utilizzo pomeridiano e serale dell'utilitaria di mammà...

 

Ho davvero amato la mia coppia di DQ-10. Ci sono voluti trent'anni per poter disporre di uno o due sistemi che cancellassero il rimpianto per la rivendita di quel sistema di altoparlanti, ma è una storia che vi racconterò un'altra volta. Trent'anni per oscurare il ricordo di certe serate meditative e solitarie trascorse nel salotto buono in compagnia dei Genesis. Del LaSalle Quartet, del quale un pezzo di Alban Berg all'interno di un cofanetto di ellepì Deutsche Grammophon mi fece scoprire una maledetta vibrazione da perdita del fissaggio del midrange a cono. Della sinfonia concertante di Mozart e di tantissimo jazz: Monk, Evans, Davis e Coltrane su tutti…

 

La magia si concluse di colpo in un lungo pomeriggio trascorso presso lo splendido negozio di Boni Pansini a Bari: c'era una volta Auditorium3. E lì organizzai un confronto serrato tra le "mie" DQ-10 e le "orrende" Bower & Wilkins DM6. "Orrende" non per la loro discutibile estetica, ma per aver compiuto un massacro innanzi alle mie orecchie, il massacro del mio mito DQ-10!

 

Tanti anni dopo, la Dahlquist DQ-10 riveste ancora uno status mitologico presso intere popolazioni di audiofili. Non è così per la DM6. E le ragioni di questo sono profondamente umane, dovute a situazioni fortemente legate al gioco delle strutture simboliche, che vale la pena di analizzare con attenzione. La Dahlquist DQ-10 ebbe un esordio sconvolgente. Era disegnata da uno sconosciutissimo Jon Dahlquist, ingegnere aerospaziale coinvolto per la NASA nel disegno del modulo di allunaggio delle missioni Apollo che conquistarono la luna. Uno dei diversi umani che nella storia hanno coltivato la nevrosi ossessiva di disegnare l'altoparlante perfetto. Il solo che, giovanissimo, abbia convinto un già maturo Saul Marantz a diventare suo socio. Saul, l'uomo, solo pochi anni prima aveva ceduto alla Superscope i diritti di utilizzo del suo nome, Marantz, ormai divenuto un brand di fama planetaria. Jon aveva disegnato un altoparlante esteticamente così simile alla già leggendaria Quad 57, e soprattutto dal suono così trasparente, che al suo debutto al New York Hi-Fi Show ci avevano dovuto appiccicare un cartello con su scritto "This Is Not An Electrostatic Loudspeaker". Gli altri prodotti dell'azienda risultarono pressoché insignificanti, e già negli anni ottanta un grave incidente d'auto impedì a Jon di proseguire la sua ricerca.

 

Così, la DQ-10 condivise la sorte di Jimi Hendrix, Marilyn Monroe e, assai più recentemente di Amy Winehouse: morì giovane e all'apice del successo. Ovvero, prima che fosse opportuno, attraverso confronti serrati, dimostrarne impietosamente i limiti, superati dai concorrenti. Il suo impatto fu formidabile. Dave Wilson nel 1974 incominciò a lavorare ai suoi diffusori modificando la sua coppia di DQ-10, sino a renderla irriconoscibile. E chi conosca la DQ-10 e le prime Wilson, WAMM e WATT innanzitutto, potrà ricostruire facilmente una parte della genealogia di questi diffusori, le cui idee essenziali riflettono l'esperienza della conoscenza delle DQ-10. Molto più di quella raccontata da Ken Kessler, che ci ha detto dell'innamoramento, della folgorazione del giovane Dave per la coppia di Klipschorn del suo vicino di casa.

 

Perché anche gli altoparlanti hanno genealogie. La DQ-10 non aveva che una musa ispiratrice, la Quad 57. Da cui però si allontanava, tecnicamente, in tutto. Non invecchiò e morì senza eredi. Perfetto, per un mito.
Prima della DM6 la Bower & Wilkins aveva già prodotto una leggenda: la DM 70 Continental, ibrido elettrostatico-dinamico europeo. Mentre dall'altra parte dell'oceano c'era l'Infinity Servo-Statik 1. E rispetto alla Continental, la DM6 sembrava quasi un ritorno al tradizionalismo, con i coni e le cupole. Dunque, la DM6 era una figlia, con la "testa a posto", di una madre rivoluzionaria. E le toccò di essere madre di quella 801 che, profondamente evoluta e mille volte modificata, ancora oggi costituisce la struttura portante dell'offerta della casa inglese. La DM6 non solo non morì giovane: era figlia, fu madre e nonna! Rispettabile, dimenticabile. B&W non aveva affatto smesso di innovare. Come dimostrano oggetti come la B&W 800 Matrix e, soprattutto, la leggendaria e assurda Nautilus. Già, la Nautilus, “brainchild” del visionario Laurence Dickie, che il rifiuto di continuare a lavorare in una B&W ormai adulta portò verso il Sudafrica, a fondare la Vivid Audio. Date un'occhiata a una foto della Giya G1 e confrontatela con la Nautilus, così come avete fatto con DQ-10 e prime Wilson... Un'azienda divenuta adulta ha grandi difficoltà a "osare" e innovare, a produrre le sue rivoluzioni come possono fare certi solo apparentemente folli artigiani/artisti. Che magari non riusciranno mai a "sfondare" ma che in alcuni casi indicheranno la via.

 

Concentrarsi su oggetti spesso pressoché sconosciuti ma "estremi" o, come dicono qualche volta gli anglosassoni, "bleeding edge", oltre il più noto "leading edge". Selezionarli e dedicare un’infinita attenzione al loro interfacciamento e alla loro messa a punto può produrre esperienze d'ascolto pressoché uniche. Ascoltare per credere: una cosa che negozi e show spesso non possono permettersi, visto che devono necessariamente e legittimamente fare riferimento a un mercato, anche se ormai più immaginato che reale.

 

Insomma, sembra che innovazione a volte non faccia rima con produzione, soprattutto in grandi numeri… benché si accordi bene con evoluzione, che è - da queste parti - quel che più ci piace. Alla prossima.

 

2 di 4 - Alla terza parte

di Angelo N. M.
Recchia-Luciani
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