Micah P. Hinson | I Lie to You

24.03.2023

Per farsi un'idea di Micah P. Hinson si potrebbe pensare a un Nick Cave meno tenebroso nella voce, ma non meno cupo per ciò che riguarda il senso dei suoi testi. Se il canto di Hinson pare sempre sul punto di sfilacciarsi in mille frammenti, non così appare la linea delle sue storie, dritta al dunque nel raccontarsi con dovizia quasi crudele di sfumature. In effetti, questo quarantaduenne autore di Memphis, dopo un silenzio di quattro anni e rotti, torna a farsi ascoltare con il suo nuovo album, I Lie to You, che è una raccolta di brani scritti durante un lungo arco di vita a partire dall'adolescenza fino a oggi. Un gruppo di canzoni che sono rimaste inedite per lungo tempo ma i cui contenuti, a colpi di slanci affettivi e delusioni, erano già emersi durante la produzione dei dischi precedenti, in particolare nel suo penultimo del 2018, pubblicato col chilometrico titolo When I Shoot at You with Arrows,I Will Shoot to Destroy You.

 

Una tra le note positive di questo più recente album è stata la sua realizzazione presso un'etichetta italiana, irpina per la precisione, il tutto reso possibile grazie anche alla produzione del chitarrista bresciano Alessandro “Asso” Stefana, oltre alla sua stretta e compartecipata collaborazione strumentale. Stefana, che suona molti strumenti a corde oltre alla chitarra acustica, in particolare il banjo in questa incisione, ha alle spalle un bel numero di relazioni artistiche importanti. In primis ha suonato in alcuni dischi di Vinicio Capossela e Marco Parente oltre alle collaborazioni con musicisti stranieri come i Calexico, Marc Ribot, Flaco Jimenez e altri ancora. Alla batteria troviamo il poliedrico Zeno de Rossi, Gregg Cohen al contrabbasso e al basso elettrico, Raffaele Tiseo agli arrangiamenti per archi, oltre naturalmente alla voce e alla chitarra di Hinson. Come si vede si tratta di un ensemble piuttosto ridotto, nonostante la presenza di sovraincisioni che contribuisce a mantenere un clima di confessionale intimità attraversato da subitanee e paludose malinconie.

 

C'è da dire che in questo I Lie to You il nostro non indossa alcuna maschera – nonostante il titolo voglia suggerire il contrario – e mostra di sé un sofferto autoritratto musicale. Una vita tribolata, cresciuto in una famiglia molto religiosa dal cui oscurantismo è riuscito a fuggire parzialmente con le droghe, passando attraverso avventure sentimentali devastanti, problemi economici, galera, depressione e dulcis in fundo – si fa per dire – uno spaventoso incidente d'auto nel 2011 che gli paralizzò l'uso delle braccia per diversi mesi.

 

Un artista che, giunto al suo undicesimo lavoro in carriera s'imbeve ancor più di musica folk, forse il mezzo ideale a rendergli il dolore narrabile e che gli permette, almeno in parte, una sorta di allunaggio morbido sulla durezza dei suoi ricordi. Le ballate che si ascoltano in questo album non sono acquerelli, come ho letto da qualche parte, piuttosto dei disegni a china dal tratto pesante in cui risalta drammaticamente il contrasto tra l'ombra e la luce. Il suo stile, a tratti incerto nel percorrere le strofe cantate, dimostra un continuo susseguirsi di prospettive che vanno dal disincanto alla flebile speranza, sostenute da una melodiosità vocale a volte dolce, altre volte confusa in uno sfocato sussurro narrativo. Oltre al raffronto con Nick Cave di cui si è già accennato, mi sembra di cogliere, nella sua espressività, la stessa mistica insonne di Townes Van Zandt e quella tendenza ad autofagocitarsi che fu propria anche di Mark Lanegan. Però Hinson dimostra pure il desiderio di uscire dalle tenebre, di chiarirsi, di ottenere l'insight liberandosi, una volta per tutte, dai fantasmi che popolano i suoi pensieri.

 

Micah P. Hinson - I Lie to You

 

Ignore the Days è il brano iniziale che si apre con un classico arpeggio in fingerpicking di chitarra e in aggiunta con gli accordi pieni di un pianoforte che marca le battute. La voce di Hinson mi sembra a tratti raddoppiata ed è sostenuta da un importante arrangiamento d'archi. Melodia non banale, arricchita sia da un arpeggio di banjo che da un delicato ricamo di note del basso elettrico, particolarità entrambe avvertibili nella seconda metà del brano. Si percepiscono, dagli inizi, quelli che saranno i lunatismi caratteriali dell'autore e l'insistere su timbriche medio-basse, molto più alla sua portata che non gli esitanti appoggi sui toni di voce più alti.

Carelessly è veramente un gioiello, poco più di tre minuti innescati da un paio di accordi delicati di chitarra e dall'innesto degli interventi cameristici degli archi, molto ben realizzati di Tiseo, che mi hanno ricordato gli arrangiamenti di Robert Kirby in Five Leaves Left di Nick Drake. Il mondo imperfetto e trascurato di Hinson risuona qui con un'eco profonda, un andamento malinconico che pare suggerire l'insostenibile pesantezza delle cose terrene. Epifanie di ricordi si sfocano in un raggelamento quotidiano ma privo di rancore, anzi, con uno sguardo disincantato che cerca così di interpretare i dolorosi misteri dell'esistenza.

I temi si diluiscono un po' in People, che cavalca una pop song posizionata tra i Chills e i Go-Betweens dalla struttura elementare I-VI-II-V, meglio conosciuta sotto il nome famigerato di “giro di Do”, anche se qui siamo in una tonalità collocata una sesta più avanti. Grande piacevolezza in un momento prescindibile dall'intero contesto che tuttavia seve ad allentare un poco la stretta emotiva dell'album.

Find Your Way Out si distende sull'accompagnamento di chitarra elettrica e pianoforte contornando la canzone di strappi occasionali, con qualche nota di cattiveria in più. Un crescendo dinamico sferza l'ascolto arricchendosi di tastiere e arrangiamenti che tendono così ad indurirsi, mentre la chitarra stessa si fa più lacerante, posizionandosi al centro dell'ascolto.

Il brano che segue è di John Denver e si tratta di Please, Daddy, Don't Get Drunk This Christmas pubblicato nel 1973 nell'album Farewell Andromeda. Nonostante l'andamento della ballata sia apparentemente leggero e restituito secondo uno schema rigorosamente country come prescritto nell'originale, il testo ha un intuibile tenore drammatico e ci trascina in un appartamento di qualche maleodorante vicolo periferico che sa di tristezze e drammi familiari.

What Does it Matter Now si caratterizza dall'intensa interpretazione di Hinson. che in questa circostanza sembra l'alter ego maschile di Marianne Faithfull. Brano rarefatto con gli efficaci ed eleganti accompagnamenti d'archi che non riesco tuttavia a capire se siano prodotti in parte anche da tastiere elettroniche. Comunque sia la profondità dell'arrangiamento regala un notevole spessore plastico alla composizione che altrimenti rischierebbe di afflosciarsi troppo su sé stessa.

Walking on a Eggshells è una tipica country-ballad con tanto di banjo che l'accompagna lungo quasi l'intera lunghezza. Nonostante il tono complessivo sia mantenuto leggero dalla voce quieta e aspra di Hinson, il testo è pieno di giochi ingannevoli e di doppifondi, con versi del tipo “...dammi un coltello e ti mostrerò la mia vena”. Folk music di stile americano, quindi, dove spesso musiche malinconicamente dolci nascondono versi tremendi e ombre di violenza subconscia.

The Days of my Youth è sorretta quasi integralmente da un accompagnamento minimale di contrabbasso, tastiere e chitarra. Un abbozzo poetico, dove l'autore rimpiange quei “... giorni andati della mia giovinezza che non ho mai conosciuto”. Alcune macchie di pianoforte intervengono qua e là per scandire i versi pieni di rimpianto che compongono un vero e proprio inno alla gioventù, quella che non si è riuscita a vivere come si sarebbe voluto. Bastano pochi accordi di chitarra per entrare subito in sintonia con il clima del brano, capacità, questa, riservata agli artisti che sanno maggiormente empatizzare con l'ascoltatore.

Wasted Days and Wasted Nights sembra una faticosa elaborazione d'un abbandono. Finalmente si ascolta un poco di più di De Rossi, che ovviamente si è tenuto dietro le quinte lungo l'escursione di questo album prettamente acustico e cordofono. Bello è l'intreccio tra la sua batteria e le note puntualizzanti del banjo, nonostante il brano risulti essere alfine un po' troppo lamentoso...

500 miles non ha nulla a che vedere con l'omonimo sottotitolo del brano dei Proclaimers, anche se l'assetto melodico non mi pare molto originale nella sua stesura. Un brano un po' troppo debole, proprio in chiusura... mah! Nell'edizione digitale in streaming c'è un bonus track, You and Me, con un intermezzo di effetti trasognanti che ci conduce dalle parti di un Tom Waits moto più educato, ma non edulcorato.

 

Micah P. Hinson

 

Un esercizio ben riuscito di monocromie malinconiche, potremmo definire, alfine, quest'ultimo album di Micah P.Hinson. Un personaggio strano. Fisicamente ricorda una via di mezzo tra Elvis Costello e un aficionados di pesca sportiva, questo per dire come certi modelli estetici possano trarre in inganno riguardo alle aspettative che ci attendiamo da certi artisti. La sua intimità è una dubbiosa e malferma riflessione attorno alla propria tribolata esistenza, ma è condotta senza pòlemos, anzi con lo stesso desiderio di distacco emotivo – che tuttavia non gli riesce molto spesso – di un anatomopatologo durante la dissezione d'una salma. E di cadavre exquis si tratta, visto la volontarietà di calarsi in un Ade di brutti ricordi, non per dimorarvi per l'eternità, ma per risalire la china, forte dell'idea che occorra scendere prima nell'oscurità, se poi si vuol ritrovare la luce della risalita.

 

Micah P. Hinson

I Lie to You

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di Riccardo
Talamazzi
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