Prima di commentare un disco come Bones di Michael Mayo, esordio assoluto di questo cantante di Los Angeles ma newyorkese “dentro”, bisogna chiarire subito alcuni passaggi chiave. Mayo è un cantante di un moderno soul che si serve, per esprimersi al meglio, di una serie innovazioni musicali che vengono in parte dall’hip-hop, in parte dal jazz e da tutte quelle abitudini elettroniche che oggi entrano frequentemente a far parte di numerosi progetti musicali. Quindi, punto primo, Bones non è propriamente un lavoro jazz ma più adeguatamente un’opera di new soul in cui si avverte molto lo sforzo di produzione condotto in studio. Punto secondo, questo è un disco piacevole e per certi versi disintossicante ma contiene elementi a tratti molto leggeri che rimandano ad atmosfere lounge, quindi non si troveranno particolari escursioni strumentali se non per quello che riguarda l’uso della voce, a volte opportunamente filtrata, sovraincisa in certi punti diverse centinaia di volte.
Michael Mayo, non ancora trentenne, è figlio d’arte, avendo entrambi i genitori musicisti e di un certo livello: il padre era sassofonista negli Earth, Wind & Fire, la madre è una corista molto richiesta. Mayo non è un autodidatta, è invece un ragazzo che ha studiato musica e canto in istituti prestigiosi e che ha avuto numerose ed evidenti influenze artistiche da personaggi come Bobby McFerrin, Stewie Wonder e, per sua stessa ammissione, dagli elementi dei Beach Boys che l’hanno ispirato coi loro proverbiali incroci vocali. Le influenze, però, non si fermano certo qui. C’è, alle sue spalle, tutta la gloriosa storia del doo-woop, la musica soul soprattutto del periodo che va dai ’50 ai ’70, scorie di R&Blues e naturalmente i nuovi approcci ritmici dei neri americani, dal rap al già citato hip-hop.
Il canto di Mayo ha un fascino suadente, s’incunea languido tra le nostre difese psicologiche e ci conquista, in fondo, con la sua semplicità comunicativa e l’euforica immediatezza. Insomma, si tratta di musica leggera ma non troppo, contemporanea senza aver smarrito l’ancoraggio alla tradizione e che si può ascoltare anche con una certa attenzione, diciamo così, “fluttuante”. Non posso comunque far a meno di notare un pizzico di ruffianeria nell’insieme, per la verità piuttosto discreto, assemblato per farsi ovviamente ben accettare da una porzione di pubblico più vasta possibile.
In questo album suonano alcuni suoi vecchi compagni di studi, come Andrew Freedman al pianoforte, tastiere e chitarra, Nick Campbell al basso elettrico e alla chitarra, Robin Baytas alla batteria. Si aggiunge al gruppo Eli Wolf,che si occupa del ruolo di produzione esecutiva, mettendoci lo zampino nei suoni elettronici. Ci sono inoltre i genitori già citati, cioè Scott Mayo e Valerie Pinkstone, che intervengono vocalmente nell’ultimo brano della raccolta.

Si comincia con The Way e dal tono della voce e dell’accompagnamento musicale si potrebbe confondere Mayo, nelle battute iniziali, con una pletora di altri melodisti disco-soul. Ma ben presto ci rendiamo conto dell’errore. La comparsa delle voci sovrapposte ci rimanda al Pet Sounds dei Beach Boys e la visione interiore si allarga in un arcobaleno di sorprendenti armonie cristalline. La ritmica di sottofondo è un rapping lento, mentre l’insieme dei cantati fa le veci di un accompagnamento orchestrale di violini. A metà brano, quasi a sorpresa, Mayo vocalizza alla Morrissey, con cui la madre Valerie ha collaborato, facendo pensare a un omaggio, più o meno consapevole, verso l’icona britannica ex Smiths.
You and You ha un testo che pare quasi un outing riguardo alla sessualità ondivaga dell’artista. Interessante è la fase iniziale, con un riff vocale ripetitivo, ben presto ripreso dalla base ritmica e dalla tastiera. Il brano, nel suo complesso, fluisce via come un soffio d’aria fresca ed è facilmente memorizzabile e ritmato quanto basta per piacere a grandi e piccini.
Another Love insiste inizialmente con il basso, sintonizzandosi con quel boost di note gravi tanto amato dalle generazioni degli anni’90 fino a oggi. Molta somiglianza, nell’intenzione del cantato, con il “ragazzo-meraviglia” Stewie Wonder. Anche in questo frangente compare un lungo vocalizzo senza parole ma questa volta il riferimento che mi si è acceso in mente è Pierre Bensusan, chitarrista francese che amava lanciarsi in lunghe, emozionanti escursioni vocali a coronare i propri brani acustici. Credo tuttavia che questa analogia non sia altro che fortuita. Per il resto piacevolezza a piene mani, pruriti groove, toni che si placano nella parte di mezzo per poi rimettersi sulla vivace rotaia principale verso il finale.
Anche Stolen Moments ha dei riferimenti precisi, questa volta verso i giochi di voce di McFerrin. Le sovra incisioni sono numerose, c’è chi dice che siano circa 250 parti vocali stratificate con tanto di brontolii di temporali in sottofondo o forse, tanto per restare in linea con la struttura dell’album, sono solo respiri soffiati da vicino in un microfono. Un brano curioso, forse un po’ tirato per le lunghe.
About Your Love ha un inizio strumentale fantastico, ritmica più organo in un istante di progressive, seguita da una classica costruzione da pop song mescolata ai soliti battiti ritmici e ai cori profusi sempre con generosità. Però la linea melodica della canzone è felicemente accattivante e ha buona presa.
Silver and Gold si muove in toni più sommessi ma il brano è globalmente meno coinvolgente e più ripetitivo, con tanto di clap ad accompagnare il canto di Mayo.
Robot Man si presenta con uno strascico elettronico e voce effettata. Sembra una sorta di lamentazione, che a dir la verità ha una veste vagamente funerea fino a metà del suo svolgimento, per poi arricchirsi di armonizzazioni vocali alla Brian Wilson. Il brano però non decolla e resta avvolto su se stesso, come velato da una coltre nebbiosa.
20/20 è un testo un po’ autobiografico e con questo brano Mayo recupera la bellezza della melodia lasciata indietro negli ultimi due pezzi precedenti. Si percepisce una ricerca armonica all’avanguardia, incrociando in modo coraggioso le diverse direzioni vocali e i numerosi stacchi ritmici, persino eccessivi per la fluida continuità del brano stesso.
Un preludio più jazzato degli altri si avverte in Bones, che dà il titolo all’album. Un arpeggio di tastiera sostiene la voce di Mayo, qui fotografata nei suoi toni più caldi. La struttura melodica è impegnativa, con continue sovrapposizioni e cambiamenti di rotta. A tratti tutto ciò mi ricorda il classico trio Lambert, Hendricks & Ross ma questa, come si è capito, è solo una delle tante influenze che interessano questo disco.
Con What’s My Name il gioco comincia a farsi un po’ ripetitivo e leggermente stucchevole, dove la ricerca della complessità finisce per appesantire la stessa impalcatura musicale. Buono l’assolo di tastiera di Freedman, l’unico presente in tutto l’album, che precede un intermezzo in cui si assiste a un altro cambio di rotta, per cui uno stesso brano sembra scomporsi in due frammenti, di cui il secondo alieno o quasi al primo. Qualche coro più legato alla tradizione africana, in sottofondo, con l’immancabile clap elettronico.
Hold on è quell’ultimo pezzo in cui, come detto in precedenza, intervengono i genitori di Mayo a dargli man forte nella struttura corale.

In conclusione, questo album ostenta un certo garbo nel suo proporsi, con l’autore che dimostra di possedere una voce assai interessante, dal forte retrogusto urbano. In certi momenti c’è un po’ di sovrabbondanza d’arrangiamento, una serie di varianti melodiche e contro balzi ritmici che forse tendono a creare qualche ingombro di troppo. Ma, nonostante questa inflazione di contenuti sonori, il lavoro è compiuto, sensato e coraggioso nel mostrare le possibilità espressive della voce umana, pur con tutto il maquillage elettronico che la riveste.
Michael Mayo
Bones
CD Outhere Music-Arcana 2022
Reperibile in streaming su Qobuz 24bit/96kHz e Tidal 16/44kHz