Quando un jazzista affermato come il portoricano Miguel Zenon si fa ammaliare dai ricordi delle canzoni che ha introiettato da ragazzo è segno che certi enigmi legati alla propria gioventù non si sono risolti e forse, per dirla tutta, non si risolveranno mai. Ritornare alle melodie del bolero, o meglio alle “boleras”, vuol dire recuperare quei santi protettori che hanno vegliato su un cumulo di tradizioni di origine spagnola e che l’hanno americanizzata, togliendo loro parte della componente danzante per arricchirla di canto e di parole. Ancor più singolare che un sassofonista dichiaratamente ispiratosi, almeno in parte, a Charlie Parker e a Ornette Coleman, decida d’inabissarsi nella memoria storica popolare e riportare a galla una serie di preziosi ritrovamenti che fanno capo ai nomi di Arsenio Rodriguez, Ray Barreto, Cheo Feliciano, Bobby Capo, Victoria Raymond – detta “la Lupe” – ed altri ancora, che hanno costituito per anni il riferimento della tradizione musicale dei Caraibi.
Tutto ciò dimostra come sia difficile recidere completamente il proprio cordone ombelicale dalla terra d’origine, anche per un sassofonista musicalmente cresciuto negli USA come lo stesso Zenon. Insieme all’idillico pianista venezuelano Luis Perdomo, che disegna in sottofondo paesaggi bucolici di elegiaca levità, il sassofono tenore scava tra i ricordi personali con un piglio nostalgico e una voce tale che a tratti pare confondersi con un canto umano. Perdomo, che è stato membro del Ravi Coltrane’s Quartet per una decina d’anni, conosce bene il linguaggio jazzistico e talora si lancia in una serie di scale be-bop ma senza mai allontanarsi troppo dai temi principali, che abbandona e riprende puntuale come un ideale compagno di viaggio a sostegno delle melodie di Zenon. Possiamo affermare che la visione di questi due musicisti si colora di in una certa velatura esistenziale, come se si tirassero le somme una volta esaurito il debito dovuto alla tradizione.
Il lavoro in questione, El arte del bolero, al momento in cui scrivo solamente editato per lo streaming e non reperibile in altro formato, è stato originariamente suonato in un locale reso vuoto dalla pandemia, la Jazz Gallery di New York. I due musicisti non avevano preparato nulla di specifico, a detta loro, se non gli accordi di base e le rispettive tonalità d’impianto, lasciandosi andare al flusso della memoria e dell’emozione. Come posseduti da uno spirito apollineo, piano e sax si sono tuffati in una forma musicale sentimentale in cui le parti, tra loro in equilibrio quasi simmetrico, erano alla ricerca d’una sezione aurea che potesse tradurre tutto in un’armonia dove nulla fosse di troppo se non l’ispirazione.
Per ciò che riguarda la sequenza dei brani dell’incisione digitale si tratta quasi di una lunga suite, tenuta assieme dagli stessi intenti e dalla medesima, accorata sensibilità che pervade ogni traccia. Si inizia con Como fus, originariamente portato al successo dall’artista cubano Benny Morè. Una scala solitaria di sax introduce il brano, aspettando, dopo una sequenza ascendente, l’arrivo sognante in arpeggio del pianoforte a cui finisce per appoggiarsi. La timbrica del fiato di Zenon mi ricorda certe espressività di Dexter Gordon, i suoi fraseggi notturni a folate che si stringono e s’allargano senza mai deviare, anche nei momenti più veloci, verso l’atonalità. Alma adentro prosegue nella direzione già tracciata da Como fus, il sax che affonda nella malinconia latina e il piano che rincuora con la sua trama di sostegno. Da apprezzare il bell’assolo di Perdomo, che si muove su una progressione reiterata di accordi discendenti con la mano sinistra, lasciando libera la destra letteralmente di volare tra i tasti. Ese hastio, dal repertorio di Ray Barreto, mostra gli aspetti molto intimi e fortemente malinconici di questa musica. Zenon non calca la mano, non fugge con le note in territori sconosciuti ma lascia al pianoforte la tensione della melodia e le sue misurate fughe in solitaria. Forse è il brano più ricco di controllo, entrambi gli strumentisti rimangono nella scia del rispettoso omaggio all’anima più tradizionale della composizione. La vida es un suegno è firmata dal compositore cubano Arsenio Rodriguez ed è forse, anche se resta difficoltoso esprimere delle gerarchie preferenziali, la melodia più struggente dell’intera opera. Come nel pezzo precedente ci si attiene alle direttive melodiche con inframmezzi controllati, senza scollinare mai. Que te pedi conosciuto per la versione di Victoria La Lupe Raymond ci offre qualche libertà in più verso il finale, dove il piano accenna a una decisa componente ritmica dal vago sapor tanghero. Si chiude con Jaguete, quasi uno scherzo con riferimenti di altre melodie frammiste: ad esempio si avvertono chiaramente le prime note di Mona Lisa di Ray Evans e Jay Livingstone, quella canzone conosciuta da tutti per l’interpretazione memorabile che ne ha fatto Nat King Cole. Proprio nel brano finale Zenon si sbizzarrisce in una serie di evoluzioni strumentali, lasciando da parte la malinconia avvolgente di quest’opera e portando, infine, un po’ di luminosa leggerezza.
Grande album, grandi interpreti, da ascoltare assolutamente almeno una volta, soprattutto quando capita di ritrovarsi in una di quelle serate caratterizzate da un mood vagamente nostalgico.
Miguel Zenon & Luis Perdomo
El arte del bolero
Miel Music 2021
Disponibile solo in streaming su Spotify MP3 320kHz, Tidal e Qobuz 16bit/44,1kHz