Pat Metheny | Road to the sun

30.04.2021

A dirla tutta erano quasi dieci anni che non seguivo più attivamente la discografia di Pat Metheny. Nonostante non abbia mai sottovalutato l’arte del musicista americano, l’ultimo suo lavoro che ho goduto fino in fondo è stato What it’s all about del 2011. Quell’opera condotta sulla chitarra acustica, dal significato quasi liberatorio dopo tanti anni di effetti elettronici e di synt, mostrava il desiderio dell’autore di riprendere contatto con le forme essenziali del suono, di far vibrare le corde per quello che naturalmente erano, sgombre da ogni sovrastruttura. In quegli anni ci fu anche il periodo dell’Orchestrion, quel mostro strumentale computerizzato e automatico fatto di tastiere, vibrafoni, marimbe e varie percussioni, una via di mezzo tra un sogno faustiano di onnipotenza creativa e una vaga dimostrazione megalomaniaca.

 

Pat Metheny - Road to the sun

 

L’ultima fatica di Metheny sorprende quindi ancora di più per la nuova svolta incentrata sulle composizioni di stampo classico-moderno fatte eseguire da altri famosi chitarristi, mantenendo per sé solo la partecipazione diretta nell’ultima traccia del disco in questione, Road to the sun. Di certo possiamo dir tutto di Metheny, tranne accusarlo di scarsa intraprendenza. Non è un musicista che tenda a metter radici in un genere consolidato e la sua ricerca, con tutti gli alti e bassi che una lunga carriera artistica come la sua possa comportare, rischia spesso di esporsi in territori scomodi e poco appetibili perfino dai propri supporter più fedeli.

 

Se non è Pat Metheny che suona in questo disco, chi sono gli esecutori? Uno è Jason Vieaux, affermato chitarrista classico, che esegue le quattro tracce che compongono la suite Four Paths of Light. Gli altri esecutori sono i membri del Los Angeles Guitar Quartet, alle prese con la seconda suite in sei movimenti intitolata, come il disco, Road to the sun. Metheny compare solo nell’ultimo brano, Fur Alina, una rivisitazione di Arvo Part che trasmuta l’originale composizione per pianoforte in una forma adattata a una chitarra a 42 corde. La realizzazione dell’album è quindi quasi totalmente basata sulla sonorità della chitarra classica, con il timbro morbido delle corde di nylon a farla da padrone. La melodiosità delle composizioni ci fa capire che ci si trova nel territorio della musica cosiddetta “colta”, terreno non privo però di qualche incantamento che proviene dalla tradizione popolare. Cambia l’intenzione nel brano di Part, dove le sonorità poco usuali della chitarra Picasso – quella con le 42 corde – e l’impronta minimale della musica ci accompagnano in territori più contemporanei.

 

Come compositore moderno, Metheny non mostra il fianco a facili critiche, anzi, lo spessore della sua opera raggiunge spesso vette di appassionata bellezza, dimostrando a tratti un calore latino che lo porta idealmente vicino a compositori come Tarrega e Albeniz, soprattutto nella quarta parte della prima suite, con tutte le corde insistentemente ribattute.

 

Cominciamo allora dalla Parte n.1 della prima suite Paths of light. L’inizio è una ruota di arpeggi concentrici tonali, incalzanti, un vortice che non dà tregua e che quasi si continua confluendo nella Parte n.2. Questa traccia ha uno sviluppo simile alla n.1 ma possiede un clima più lento e caldo, appassionato, con numerosi crescendo e decrescendo di volume che rendono il brano più ricco di variazioni dinamiche del precedente. Meditazione solitaria, quindi, con una fiamma che si percepisce ardere internamente e occhieggiare attraverso gli armonici pizzicati nel finale. La Parte n.3 sorprende con le prime note che ricordano la Meditarranean sundance del trio Di Meola, De Lucia e McLaughlin, ma si tratta solo di una suggestione iniziale, perché questo si rivela ben presto il brano più complesso dell’intera quadriade, non difficile all’ascolto ma con una struttura di base tutt’altro che elementare. La Parte n.4 che chiude la prima suite ha una veste molto malinconica e notturna, assai vicina come struttura ai grandi autori spagnoli che abbiamo prima nominato. Una piccola, grande meraviglia che merita ripetuti ascolti per poterla apprezzare totalmente. Si entra così nella seconda suite Road to the sun. La parte n. 1 inizia con i nuovi esecutori, cioè il quartetto di chitarre di Los Angeles. Non cambia il clima, che in realtà potrebbe essere benissimo la continuazione della precedente suite. La buona collocazione stereo delle chitarre contribuisce a creare una certa dimensione spaziale da palcoscenico che aiuta a calarsi più profondamente nella suggestione della musica. La Parte n.2 si muove come una danza flamenca, il viaggio interiore si fa ancora più intimista e a tratti anche moderatamente orecchiabile. Stupisce la sensazione di calore affettivo che emerge da questa composizione, con le chitarre che verso il finale si adattano a un accompagnamento a corde aperte quasi fusion. Si riconosce di più in questo frangente la mano di Metheny, che non nasconde una certa continuità con il suo passato, che qui riemerge quasi con un malcelato sentimento di orgoglio. La Parte n.3 appare molto chiusa, introversa, con la struttura armonica che prende il sopravvento sulla melodia. Gli accordi si cercano l’un l’altro per colmare una distanza che si fa più drammatica verso la conclusione sospesa. La parte n.4 è proprio Metheny fatto e finito. Se nella Parte n.3 il suo stile riemergeva quasi con timidezza, qui invece si riappropria dell’intera composizione, che avrebbe potuto benissimo essere riprodotta dalle sue chitarre elettriche, effetti finali compresi, in questo caso ottenuti dal semplice sfregamento del plettro sulle corde. La Parte n. 5 ha una solarità che spazza le nubi della malinconia dimostrando sonorità d’aspetto più sudamericano e quasi blues nell’accenno di qualche pentatonica e nell’accompagnamento pieno con tanto di mano percussiva sul corpo della chitarra. Sembra una serie di passaggi alla Stephen Stills, per rendere l’idea. La Parte n. 6 ritorna verso la penombra con un brano molto cantabile, struggente nel suo aprirsi e richiudersi, nel suo tentativo di abbandonare il rifugio interiore e ritornare al mondo. È la volta ora, dell’entrata in scena di Metheny stesso ad affrontare Fur Alina. Il brano s’annuncia con una profonda vibrazione di corda bassa, un rintocco quasi funereo. La melodia di note essenziali ha uno sviluppo minimo, non una più del necessario e tutto questo s’allinea ovviamente con il rapporto di rigore religioso che Arvo Part ha con la sua musica. La chitarra Picasso assomiglia, dato l’alto numero di corde, al suono di un’arpa, rarefatto e cristallino nei toni più alti.

 

La complessità di quest’opera pone il pubblico di fronte a una duplice scelta. Da un lato occorre avere sintonia con il timbro delle chitarre classiche perché altri suoni, se escludiamo Fur Alina, in questo disco non ne ascolteremo. In seconda battuta i fan di Metheny potrebbero sentirsi a disagio per questa selezione piuttosto radicale nella tipologia delle composizioni. Occorre infatti un certo orecchio allenato per approcciare la classicità di queste strutture, anche se la loro appartenenza ai modelli tonali non le rende per nulla ostiche all’ascolto. Una volta doppiati questi ostacoli si potrà però godere appieno della malinconica bellezza e della nostalgica meditazione che questa musica suggerisce.

 

 

Pat Metheny

Road to the sun

CD BMG/Warner

Reperibile in streaming su Qobuz 16bit/44,1kHz

di Riccardo
Talamazzi
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