ReMusic intervista Rajko Marcon Quarta di ItaliAcoustic

28.02.2022

Dopo aver parlato qui con Rajko Marcon Quarta del percorso da lui intrapreso per arrivare a definire la sua nuova classe di amplificazione HS, gli rivolgiamo oggi alcune domande sull’amplificazione audio Hi-Fi in generale.

 

Domanda: Uno dei luoghi comuni o degli stereotipi più diffusi nell’audiofilia è che un “buon” ampli debba raddoppiare la potenza al dimezzarsi dell’impedenza: è sempre “cosa buona e giusta”? Questo in effetti è spesso contraddetto dal “sound” di molti ampli valvolari di basso – se non inesistente – wattaggio, scusa l’approssimazione…

Marcon Quarta: Sì, è sempre cosa buona, giusta, necessaria. Questo corrisponde alla linearità richiesta dall’alta fedeltà, ossia l’amplificatore deve comportarsi come un generatore di tensione ideale senza mai “piegarsi” all’impedenza. I diffusori sono progettati e ottimizzati per dare la risposta voluta in condizioni di tensione costante. Un amplificatore che non segue questa legge non può essere fedele perché risentirà delle continue, inevitabili e spesso enormi variazioni di impedenza dei diffusori, e quindi ne falserà la risposta, a volte in modi gradevoli ma quasi sempre peggiorando le cose.

Gran parte dei comportamenti affascinanti degli accoppiamenti finale-diffusore derivano dalla mancata osservanza di questa regola, semplice a dirsi ma difficile da ottenersi per noi costruttori. Va però puntualizzato che questo discorso vale entro i limiti fisici degli apparecchi, come per tutte le cose!

 

La legge “metà dell’impedenza > doppio della potenza” è solo un caso particolare della più generale “P=V2/Z” dove se V rimane costante come dovrebbe e Z viene dimezzata la potenza P raddoppia, ma per qualsiasi impedenza si ha che, se la “nuova Z” è una frazione di quella iniziale, l’incremento di potenza è la frazione inversa.

 

Ad esempio, se abbiamo 100W su 8ohm e poi l’impedenza passa a 6ohm, allora la nuova Z sarà 6/8 di quella iniziale e la potenza aumenterà a 8/6 di quella iniziale, cioè 100W x 8/6 = 133W; se passa a 5ohm avremo 100W x 8/5 = 160W e così via. Come caso particolare, se l’impedenza dimezza passando da 8 a 4ohm avremo il rapporto delle impedenze a 4/8 e quello delle potenze a 8/4, cioè la potenza passerebbe a 100W x 8/4 = 200W, il doppio.

 

Tutto questo in teoria, ma poi nella pratica gli amplificatori sono dotati di protezioni che, a un certo punto, limitano la corrente – ed è meglio così, perché, in mancanza di tali protezioni, se c’è un problema, vanno in fumo i diffusori – e di conseguenza non si può scendere di impedenza mantenendo questa legge di proporzionalità inversa.

Questo non è un segno di scarsa qualità, ma la semplice considerazione che ogni apparecchio ha dei margini operativi e che è opportuno rimanere all’interno di questi.

 

Domanda: Quale potrebbe essere un buon criterio per scegliere un amplificatore? L’impedenza che può gestire? La potenza “dura e pura”? Cosa potrebbe indirizzarci verso un modello o verso un altro, senza fare calcoli matematici ma nemmeno in modo del tutto sentimentale o estetico, con i rischi che una scelta “di pancia” potrebbe portarci?

Marcon Quarta: Eh, bella domanda… In questa scelta, come in molte altre, c’è una parte soggettiva e una oggettiva. Della prima ognuno è sommo giudice, ma ho notato che sulla seconda c’è un po’ di confusione, e vorrei provare a chiarire alcuni aspetti fondamentali che vengono dalla Fisica e valgono per tantissime cose.

 

Un amplificatore è una “macchina elettrica” che svolge un certo lavoro, nel nostro caso pilotare dei diffusori con un segnale quanto più possibile della stessa “forma” di quello in ingresso, ma più “energetico”, in modo da muovere gli altoparlanti. La componente energetica la chiamiamo “potenza”, quella della forma la chiamiamo “fedeltà”.

 

Volendo adottare una metafora comprensibile a molti, per non scrivere equazioni, l’amplificatore è un po’ come il motore di un’automobile, dove l’ingresso è il comando dell’acceleratore e l’uscita è il movimento meccanico. Ecco: un motore ha in uscita “numero di giri e coppia motrice” come un amplificatore elettrico ha in uscita “tensione e corrente”. Tutto quello che il nostro motore può fare è compreso tra zero e un massimo di giri – ad esempio 6000RPM – e zero e un massimo di coppia motrice – poniamo 300Nm – come, analogamente, il nostro amplificatore audio ha in uscita una tensione massima e una corrente massima.

 

Credo sia noto a tutti che il motore della nostra auto produce un effetto diverso a seconda della marcia inserita: più velocità e meno spinta con le marce lunghe, più spinta e meno velocità con le marce corte. Sono modi diversi di “accoppiare” il motore alla vettura. È esattamente la stessa cosa che accade a un amplificatore quando lo colleghiamo a impedenze basse o alte: esso viene “accoppiato” in modi differenti, per esattezza le marce corte corrispondono alle impedenze alte e viceversa.

 

Cerchiamo di osservare l’analogia in tutti i suoi particolari, con parallelismi diretti tra motore e amplificatore:

  • Marce corte, diffusore alta impedenza: il motore gira di più – tensioni più alte in uscita – ma sforza poco – correnti più basse in uscita – e, se vogliamo potenza, contano più i giri, cioè la tensione, che non la coppia, cioè la corrente.
  • Marce lunghe, diffusore bassa impedenza: il motore gira di meno – tensioni più basse in uscita – ma sforza di più – correnti più alte in uscita – e, se vogliamo potenza, conta più la coppia, cioè la corrente, che non la tensione – cioè i giri.

N.B. In questa metafora l'amplificatore è il "motore", e quindi la coppia è quella richiesta ed espressa dal motore e non quella sulle ruote! Un motore sale facilmente di giri con le marce basse perché gli viene richiesta meno coppia, mentre sforza di più con le marce alte e ha più difficoltà a salire di giri – è per questo che si parte in prima e non in quinta – quindi non commettiamo l'errore di metterci al posto della vettura!
Analoga considerazione si può fare osservando come i ciclisti "sgambettino" più velocemente e con meno sforzo con le marce basse, e "spingano" di più con le marce alte.

Quando togliamo un diffusore da 12ohm e ne mettiamo uno da 4ohm, per l’amplificatore-motore è come passare dalla prima marcia alla quinta, cioè risulta molto più “frenato”, e può farcela solo se ha coppia: è il caso dei diffusori a bassa impedenza, dove, se l’amplificatore non ha molta corrente in uscita, il risultato è deludente.

 

I valvolari possono avere molta tensione ma esprimono poca corrente, dunque sono come un motore che “gira” tanto ma ha poca coppia – pensate al motore di una moto – e noi un motore del genere lo possiamo far funzionare solo con delle marce corte, con mezzi leggeri… come un diffusore da 10/12/16ohm.

 

I normali ampli a stato solido sono come dei motori di vetture medie: “girano” abbastanza e “spingono” abbastanza per avere prestazioni dignitose con marce non troppo corte – tipo un diffusore da 10ohm – e non troppo lunghe – tipo 6ohm – perché riescono a erogare tensioni e correnti medie, come medie saranno le loro prestazioni.

Non ha senso forzare una normale auto “millequattro” a 8000RPM di prima marcia o pretendere che spinga una quinta marcia ad alte velocità in salita, perché è fuori dalle sue possibilità.

 

Se l’analogia è compresa, si capisce chiaramente che la potenza dipende sia dalla tensione che dalla corrente e che il modo migliore di sfruttarla è “azzeccare la marcia giusta” cioè l’impedenza giusta. Non c’è una tipologia migliore in assoluto: un motore può esprimere 200 cavalli girando molto e spingendo poco, come quello di una moto, oppure girando poco e spingendo molto, come quello di un camion. Nel primo caso dovremo usare marce corte – alte impedenze – e nel secondo marce lunghe – basse impedenze – e saremmo poco avveduti a montare il motore di una moto sul cambio di un camion come lo saremmo a collegare un amplificatore valvolare a un diffusore da 3ohm.

 

Ci potremmo chiedere se ci sono amplificatori che hanno grandi capacità sia in tensione che in corrente, e certamente la risposta è sì: sono come i motori delle vetture supersportive, che “girano” tanto e “spingono” tanto e, proprio come questi, hanno il pregio di poter dare grandi prestazioni con le marce corte – cioè impedenze alte – e con le marce lunghe – cioè impedenze basse – e il difetto, per contro, di essere rari e costosi.

 

Tutto questo discorso è solo sulla potenza ma, se aggiungiamo la fedeltà – che potremmo paragonare alla fluidità, alla silenziosità, al modo in cui risponde all’acceleratore – e pretendiamo che il nostro motore-amplificatore sia anche fedele oltre che potente, esso diventa ancora più raro e costoso.

 

Domanda: A integrazione della precedente domanda, al diminuire dell’impedenza, l’ampli “ideale” dovrebbe aumentare la quantità di corrente, fino ad arrivare teoricamente al cortocircuito con una corrente infinita, un po’ come nei saldatori, scusa ancora l’approssimazione. Ma questa corrente necessaria per pilotare correttamente gli altoparlanti, a certe quantità non ha anche un effetto negativo sui loro componenti, compresi quelli dei crossover?

Detto in altri termini, a diversi noi audiofili – e qui io mi ci metto in prima persona – sembra che gli altoparlanti/diffusori il cui modulo non scenda sotto i 4 ohm suonino più “rilassati” e “naturali”. Addirittura, quelli il cui modulo sia regolarmente intorno a 8 ohm o superiori sembrano ulteriormente più “liquidi” nella riproposizione della musica. Al contrario, ma è una mia generalizzazione, non indebita, spesso i diffusori il cui modulo scende repentinamente o abbondantemente o largamente sotto i 4 ohm, l’avverbio sceglilo tu, sembrano più stizzosi, sembrano indurirsi, sembrano riproporre cartavetrata e non musica. Questo soprattutto – sembra ovvio ma va specificato – all’aumentare del volume di ascolto, non della dinamica reale.

Marcon Quarta: Si tratta esclusivamente di questioni tecnologiche, non c’è nessun collegamento teorico tra impedenza e qualità. Ho lavorato su amplificatori audio e diffusori a impedenze di 0,2ohm dove con 14V si esprime un kilowatt di potenza, e il suono era ottimo; inoltre ricordiamo che i sistemi di filodiffusione lavorano con impedenze di centinaia di ohm senza “liquefazioni sonore”. Non ho una risposta breve, vado ad approfondire.

 

A determinare l’impedenza di lavoro sono considerazioni pratiche e costruttive, oppure economiche o di standard, quasi sempre una combinazione di tutti questi fattori. Uno dei fattori determinanti è quello dei cavi, ad esempio, e non mi riferisco a qualità esoteriche, ma alla semplice resistenza dovuta alla lunghezza e alla sezione del conduttore. La regola di base è che la resistenza del cavo deve essere trascurabile – cioè molto minore – rispetto l’impedenza di lavoro, per non abbassare il fattore di smorzamento e perdere potenza. Anche questa è fisica, e non si può fare nient’altro che rispettarla.

 

Negli impianti car audio i cavi sono corti e sono passati stabilmente, non a vista, dunque si possono usare sezioni generose, che insieme alle corte distanze determinano resistenze basse dei conduttori. Inoltre, si hanno alimentazioni a basso voltaggio, 14V al massimo per le autoradio, e qualche decina di volt negli amplificatori più costosi dotati di survoltori, quindi se si vuole potenza – che ricordiamo è P=V2/Z con le usuali notazioni – bisogna tenere bassa l’impedenza Z.

 

Uniamo la considerazione sui cavi con quella sulle tensioni, ed ecco perché nelle autovetture l’impedenza tipica è 4ohm o inferiore.

 

Dentro le abitazioni disponiamo di tensioni maggiori, facilmente ottenibili con un trasformatore dalla rete elettrica, e quindi non occorre tenere bassa l’impedenza per ottenere potenza.

Aggiungiamo che i cavi sono molto più lunghi di quelli necessari dal cruscotto allo sportello – e quindi la loro resistenza è maggiore, a meno di non rischiare il divorzio per aver posato un cavo grande come un pitone in salotto – e capiamo perché l’impedenza standard sale a 8ohm o più, e il motivo è appunto che dobbiamo tenerci più alti perché la resistenza maggiore del cavo sia ancora trascurabile e possiamo permettercelo perché abbiamo buona disponibilità di voltaggio negli amplificatori.

 

Con le filodiffusioni si dovevano coprire distanze di decine o centinaia di metri – l’intero piano di un edificio o un centro commerciale – e i cavi devono avere sezioni limitate per poter essere inseriti negli impianti, quindi hanno resistenza ancora più elevata rispetto alla quale per i diffusori è stato scelto uno standard a 100ohm in modo che la resistenza del cavo fosse in confronto trascurabile. Di nuovo: più resistenza ha il cavo e più alta deve essere l’impedenza di lavoro perché il cablaggio non “contamini” i parametri del circuito.

 

Poi ci sono motivi tecnici negli altoparlanti, in quanto avvolgimenti con troppe spire di cavo finissimo o poche di grande spessore portano problemi nella risposta meccanica, ed ecco perché la stragrande maggioranza dei magnetodinamici ha impedenza tra 1 e 50ohm, infatti quelli per filodiffusione hanno impedenze diverse e incorporano un trasformatore di impedenza per arrivare a 100ohm. Anche le cuffie hanno valori di qualche decina di ohm per non pregiudicare la resa acustica con i piccoli cavi di collegamento, e non più di quelli per non avere avvolgimenti troppo pesanti al loro interno e tali da essere pilotati con poca tensione.

 

Stesso discorso per gli induttori dei crossover, che devono avere resistenza trascurabile ma contemporaneamente le spire necessarie al valore di induttanza richiesto.

 

Quasi tutta la fisica è un compromesso, non ci sono ricette miracolose, tranne che nelle pubblicità.

 

Il motivo per cui può sembrare che i diffusori con impedenze maggiori abbiano un suono più gradevole è dovuto a questioni puramente elettriche, perché i problemi di cui gli amplificatori e i componenti dei crossover soffrono aumentano con la corrente erogata, e questo accade a impedenze basse perché I=V/Z dove, se Z aumenta, la corrente diminuisce e tutto lavora meglio. E, come abbiamo visto, le resistenze dei cavi sono meno influenti a impedenze maggiori. Il rovescio della medaglia è che è più difficile – ma non impossibile – ottenere potenza e dinamica con sistemi ad alta impedenza sia per questioni elettriche che meccaniche, il che giustifica in parte l’attitudine di molti produttori a scendere d’impedenza.

 

Un’accurata progettazione delle elettroniche può comunque produrre amplificatori in grado di funzionare senza “rugosità” anche a impedenze basse, curando bene l’impianto.

 

Domanda: Damping factor o fattore di smorzamento, questo sconosciuto – sugli ampli a valvole – e questa “bestia nera” sulle altre tipologie di amplificazione: perché è così? Perché si è creata un’isteria da DF? Perché invece dovremmo e dobbiamo prevederlo e in che misura, se è quantificabile?

Marcon Quarta: Tutto il discorso precedente su come gli amplificatori debbano mantenere la tensione nonostante le variazioni di impedenza, al netto di altri parametri, è riassunto dal fattore di smorzamento, il famigerato damping factor. Se questo è alto, allora l’amplificatore mantiene il controllo, se è basso no. Per coloro che non digeriscono le formule uso spesso una metafora, imprecisa ma che rende l’idea. Immaginiamo che la sorgente sia un pittore, il diffusore la tela e l’amplificatore il pennello. Ebbene, avere un DF basso è come avere il manico del pennello in gomma, ossia per quanto il movimento della mano – la sorgente – sia preciso, il tratto disegnato sulla tela – ossia il suono che esce dal diffusore – sarà impreciso. Più il DF è basso più il pennello è gommoso, e allora i cerchi diventeranno delle ellissi tremolanti, i lati dei poligoni non saranno dritti, e i piccoli dettagli delle figure spariranno perché il manico di gomma “impasterà” i piccoli movimenti tra quelli grandi. Per quale motivo il pubblico se n’è accorto solo recentemente? Anzitutto perché decenni fa non ci si poteva fare niente, essendo sia i valvolari che i primi finali a stato solido tutti con DF basso – dunque inutile parlare di una cosa che non si può cambiare – e poi perché le impedenze dei diffusori erano più alte.

 

Ecco una cosa da puntualizzare: il DF non è assoluto ma dipende dal carico applicato. Questo importante parametro è il rapporto di due valori, ossia l’impedenza del carico, il diffusore, e la resistenza interna dell’amplificatore, propria dei suoi circuiti.

 

Facciamo qualche calcolo esplicativo, nulla di complicato.

 

Ad esempio, se la resistenza interna di un amplificatore è 80 millesimi di ohm, cioè 0,08ohm, e noi lo colleghiamo a un diffusore da 8ohm, allora DF=8/0,08=100.

 

Se colleghiamo lo stesso amplificatore a un diffusore da 16ohm allora DF=16/0,08=200.

 

Se lo colleghiamo a un diffusore da 4ohm allora DF=4/0,08=50.

 

Fatti salvi gli altri parametri di un amplificatore, molti e complessi, questo dovrebbe far capire bene perché a impedenze più alte il suono sembra migliore: perché lo stesso amplificatore avrà un controllo maggiore. Se vogliamo ricollegare questa cosa alle domande precedenti, è come se le impedenze più basse corrispondessero a delle tele più ruvide, per le quali è necessaria una maggiore forza sul pennello, e questa forza è proprio la corrente. Lo stesso manico di gomma sarà meno deleterio se si usa poca forza, se la tela è più “morbida” come accade con impedenze più alte. Più si forza, più si distorce.

 

Fuori di metafora, una volta fissata l’impedenza si può cominciare a parlare di alta fedeltà se il DF è almeno 100, come ordine di grandezza. La perdita di controllo avviene a ogni livello, non solo quando l’amplificatore è al massimo. Abbassare il volume non ci protegge.

 

Di solito i diffusori magnetodinamici, che sono i più comuni, presentano impedenze alte sulla porzione acuta della gamma di frequenze e impedenze più basse man mano che si scende nel regno dei mediobassi e bassi. Non è una regola, ma accade spessissimo.

 

Per conseguenza, un amplificatore che agli 8ohm nominali ha un basso DF si troverà a lavorare molto meglio sulle gamme alte, semplicemente perché in quella zona di frequenze l’impedenza del diffusore arriva a 15-30-50ohm o più. Lo stesso amplificatore si troverà a lavorare molto peggio sulle gamme basse, dove woofer e crossover abbasseranno l’impedenza dagli 8ohm a 5, 4 o addirittura 3ohm.

 

Questo è il motivo per cui generalmente, nelle multiamplificazioni, i valvolari – che hanno un DF basso – sono usati per i medioalti, dove possono esprimere le loro doti senza soffrire eccessivamente la mancanza di corrente e di controllo. Per lo stesso motivo si usano grossi finali a stato solido per la gamma mediobassa, dove le esigenze di corrente sono alte e senza un DF di almeno 200 i bassi sarebbero gommosi, poco controllati.

 

Vorrei aggiungere un’ultima cosa sul DF, ora che dovrebbe essere più chiaro come questo parametro dipenda globalmente dall’impianto e non solo dall’amplificatore: anche i cavi di potenza entrano in gioco. Fanno parte del sistema come lo farebbero un paio di guanti indossati dal pittore nella nostra metafora: sono un’altra resistenza aggiunta, un altro intermediario con la sua dose di gommosità, per così dire. Questa resistenza si somma a quella interna dell’amplificatore, e può anche superarla.

 

Torniamo al primo esempio dell’amplificatore con resistenza interna da 0,08ohm e conseguentemente un DF a 8ohm pari a 8/0,08=100.

 

Se il cavo dal finale al diffusore avesse una resistenza di 0,1ohm questa si sommerebbe a quella del finale, portando le resistenze in serie – il manico del pennello – a 0,1+0,08=0,18ohm.

 

In queste condizioni il DF con gli stessi diffusori da 8ohm andrebbe da 100 a DF=8/0,18=44 cioè meno della metà.

 

Sulle gamme basse, dove magari il diffusore si porta a 4ohm, il DF scenderebbe a 22, ossia un valore intollerabile perché l’impianto possa suonare davvero bene.

 

Supponiamo ora di collegare un amplificatore con DF=1000 su 8ohm, che quindi avrà una resistenza interna di 0,008ohm perché 8/0,008=1000, nello stesso impianto con questo ultimo cavo.

 

La resistenza totale in serie sarà 0,008+0,1=0,108 e il DF complessivo dell’impianto crollerà a DF=8/0,108=74.

 

In pratica avremo speso migliaia di euro per un finale con DF=1000 ma il cavo vanificherà la spesa perché abbasserà il DF fino a portarlo a 74, cioè quello di un modesto amplificatore a stato solido degli anni ‘80. Non certo un buon affare.

 

È importante capire che, qualsiasi valore abbia il DF di un amplificatore, tutto ciò che è inserito tra esso e il diffusore lo abbasserà, di poco se la resistenza introdotta è molto molto bassa, di molto se la resistenza è soltanto bassa, di moltissimo se la resistenza non è bassa.

Inoltre, più un amplificatore ha il DF alto e più il cavo avrà influenza, come si è visto dagli esempi, perché lo stesso cavo che ha dimezzato il DF di un amplificatore mediocre ha invece ridotto di 13 volte il DF di un amplificatore ottimo.

 

Con i cavi in circolazione, anche i migliori, è difficilissimo superare un DF complessivo di 500, anche con il miglior amplificatore del mondo, a meno di non collegarlo a 10 cm dal diffusore. Problemi analoghi li troviamo dentro al diffusore, i produttori ne sanno qualcosa.

 

Tutto questo è la prova, una volta di più, che per ottenere un buon risultato non servono formule magiche ma un’ottima catena di elementi tutti validi e ben integrati tra loro, e che nessun cavo può migliorare il suono – perché tutti hanno una resistenza – ma molti cavi possono invece peggiorarlo, anche se sono collegati alle migliori elettroniche e diffusori.

 

Domanda: Sensibilità ed efficienza dei diffusori. Sono due parametri apparentemente vicini ma nella realtà lontani, soprattutto perché misurano e sono misurati in modo diverso, significano cioè cose diverse. Quali sono i “trucchetti” che si nascondono spesso dietro chi esibisce l’uno o l’altro parametro?

Marcon Quarta: Questa è una domanda maliziosa! Sensibilità ed efficienza sono parametri comuni a moltissime macchine elettriche e meccaniche, e hanno definizioni diverse per ogni macchina, seppure oggettive e coerenti.

L’efficienza di un diffusore è, come per altre macchine, la percentuale di energia “utile” resa rispetto a quella che viene fornita: si fornisce energia elettrica alle boccole e si ricava... energia acustica, calore, vibrazioni del mobile o campi elettromagnetici.

Fatta 100 l’energia in entrata, se quella acustica – che definiamo “utile”, trattandosi di un diffusore – vale 73, allora diremo che l’efficienza è del 73% e vuol dire che il restante 27% sarà dissipato in calore o trasformato in vibrazioni o altro di sgradito per le nostre finalità. Chiaramente sarebbe meglio avere la massima efficienza possibile, ma questo parametro non chiarisce molto sulla qualità del suono, che potrebbe essere migliore in un diffusore con efficienza al 70% piuttosto che in uno con efficienza del 90%, e per questo non se ne parla spesso.

 

La sensibilità invece è un parametro totalmente acustico e per questo è più interessante nel nostro campo. Sostanzialmente si fornisce una potenza elettrica in ingresso al diffusore e si misura quanta pressione acustica viene prodotta ad una fissata distanza.

Parliamo ora di potenza anziché di energia perché misuriamo così la prestazione dei nostri apparecchi, e perché la potenza non è altro che l’energia impiegata in un certo momento.

 

È chiaro che un diffusore poco efficiente avrà anche una sensibilità bassa perché sprecherà energia in modi diversi dalle onde acustiche, ma questo non ci aiuterà più di tanto perché la definizione di sensibilità dipende da più cose, non sempre espresse.

 

Per il singolo altoparlante, la sensibilità varia moltissimo con l’installazione, cioè se esso è posto in aria libera, su un pannello, in una cassa chiusa o con elementi reflex.

 

Inoltre, essa varia con la frequenza, e sebbene si possa fare una media della resa distribuita su tutta la gamma, questo non ci informa di come si comporterà quell’altoparlante una volta installato in un diffusore e filtrato da un crossover.

 

Sulla sensibilità di un diffusore fatto e finito, invece, abbiamo il vantaggio di eliminare l’incertezza del dato dei singoli altoparlanti, perché fissati e collegati una volta per tutte.

 

Ma, di nuovo, la sensibilità dichiarata è ad una sola frequenza o è la media su tutta la gamma? Con una potenza effettiva di 1W in ingresso, oppure rispetto una tensione fissata che, come sappiamo, produce una potenza diversa a seconda dell’impedenza?

 

Si ha che molti produttori dichiarano la sensibilità con una tensione di 2,83Vrms in ingresso, cioè misurano la pressione acustica in dB SPL a 1 metro di distanza, in una camera anecoica, su una certa frequenza con 2,83Vrms sui terminali del diffusore.

 

Questo potrebbe essere indicativo? Non troppo, in realtà, perché applicando una tensione di 2,83V a un diffusore che su quella frequenza presenta impedenza di 8ohm si trasmette una potenza di 2,83V2/8=1W, ma se la stessa tensione è applicata a un altro diffusore che su quella frequenza presenta impedenza di 3ohm, la potenza che gli forniamo per la misura è 2,83V2/3=2,7W, cioè quasi il triplo.

 

Dunque, se il primo diffusore dichiara una sensibilità di 92dB con 1W in ingresso e il secondo una sensibilità di 93dB con quasi 3W in ingresso, a parità di potenza la pressione sonora prodotta dal primo sarà maggiore di quella prodotta dal secondo, cioè quello da 8ohm con 92dB sarà più efficiente di quello da 93dB a 3ohm nel trasformare l’energia fornita dall’amplificatore in energia sonora.

 

La verità è che tali misure sono più complesse del semplice numeretto indicato in brochure, e che quello che non sappiamo di come sono state condotte le prove lascia aperta la porta a qualche “furbata”, come abbassare l’impedenza per dichiarare una maggiore sensibilità che in realtà non c’è. Occorre informarsi bene o fare misure dirette.

di Giuseppe
Castelli
Leggi altri suoi articoli

Torna su

Pubblicità

DiDiT banner
Omega Audio Concepts banner
Vermöuth Audio banner
KingSound banner

Is this article available only in such a language?

Subscribe to our newsletter to receive more articles in your language!

 

Questo articolo esiste solo in questa lingua?

Iscriviti alla newsletter per ricevere gli articoli nella tua lingua!

 

Iscriviti ora!

Pubblicità