Rosalie Cunningham | Two Piece Puzzle

15.04.2022

Il rischio di un lavoro come questo Two Piece Puzzle, della britannica Rosalie Cunningham, può essere già contemplato nella stesura dello stesso titolo. Il termine “puzzle” fa pensare a un insieme di frammenti da ricomporre e in effetti così è, con la macroscopica differenza che qui i pezzi da assemblare sono ben più di due. Consideriamo questo album come un bigino della musica rock che va dagli anni ’60 alla fine dei ’70, contenente in pillole sonore un intero percorso esperienziale che parte dai Beatles per arrivare ai Genesis, ad esempio. Una wunderkammer che contenga profumi, immagini, suoni, colori che ben conosciamo. Entrando nello specifico, l’elenco dei riferimenti e delle citazioni è talmente vasto che mi limiterò alle tracce più visibili. Pop, rock psichedelico, rock-blues, folk-rock inglese, Black Sabbath, prog alla Wishbone Ash, Cream… e mi fermo qui. Dobbiamo però chiederci che razza di operazione è mai questa. Puro cinismo calcolatore? Nostalgia canaglia? Amore incondizionato e anacronistico per il passato? Posizioniamo subito qualche paletto fondamentale. La Cunningham è un’ottima cantante ed è anche una polistrumentista che si arrangia con le chitarre e con le tastiere. La sua voce ricorda molto da vicino quella di Chrissie Hynde, ex vocalist dei Pretenders. Non è un’esordiente, proviene da due esperienze in gruppo – Ipso Facto e Purson – ed è attualmente alla seconda prova da solista, dopo l’esordio nel 2019. La Cunningham ne deve aver ascoltata tanta, di musica, negli anni della sua adolescenza, naturalmente componendo riassuntivamente un insieme di suoni che hanno un’origine molto più vecchia di lei, dato che, infatti, Rosalie ha circa trent’anni. Il fatto che lei tenda a riproporre, senza neanche tanti mascheramenti, gran parte di musica del passato, da un lato rinfocola la mia ipotesi dell’attuale ondata manieristica nell’ambito rock e dall’altro conferma l’impressione che il fermento di quegli anni ’60 e ’70 non è stato un semplice fuoco di paglia. Un vero e proprio incendio si è propagato da allora ed evidentemente non è ancora stato spento, dato l’elevato numero di piromani in circolazione come appunto la Cunningham dimostra di essere.

 

Per registrare questo album sono stati necessari, oltre a tutti gli strumenti che suona l’autrice, le chitarre dello scozzese Roscoe Wison, la batteria di Antoine Piane e anche una vecchia conoscenza come Ric Sanders al violino, che riascoltiamo volentieri dopo un glorioso passato con Fairport Convention, Albion Band e Soft Machine. L’album è veramente godibile e divertente, cresce con gli ascolti e poi, elemento da non trascurare, ci fa ritornare la voglia di riprendere in mano i nostri LP polverosi e di riascoltarli dopo tanti anni di oblio.

 

Rosalie Cunningham - Two Piece Puzzle

 

Si inizia con Start with the Corners, brano solamente strumentale, che sembra un ibrido tra Ozzy Osbourne e i Wishbone Ash. Un mostro? Sì, ma di quelli con la faccia simpatica, che ti fanno pure divertire. Puro rock, un po’ dark – mi ricorda anche il primo LP dei Black Sabbath – condito con una dose generosa di spezie psichedeliche.

Un passo ulteriore e siamo a Donovan Ellington, con il violino di Sanders che ci fa ripiombare in piena atmosfera Fairport Convention e ci par quasi di sentire, coinvolti in questa allucinazione collettiva, le timbriche della chitarra di Richard Thompson. Una vera e propria folk-rock ballad e scivoliamo nel vortice dei ricordi, nell’epopea della tradizione britannica riveduta e rimasticata degli anni ’70. Ci mettiamo anche una piccola suggestione di Ian Gillan, così, tanto per gradire.

Donny pt.Two è la narrazione folk che continua in un popolarissimo 2/4 dall’andamento ironico e molto tradizionale.

Quando arriva The War l’approccio ai Genesis e ai Gong è talmente palese che pare di trovarsi subito proiettati in Duet senza neanche renderci conto. Qui le cose si complicano perché, tra i riferimenti più lampanti, affiorano addirittura i Beatles verso metà brano. Sette minuti circa in cui si finisce in un tunnel di specchi in cui vediamo riflesse le immagini di John Lennon e di Jimi Hendrix sovrapporsi al suono di un mandolino, un vero e proprio tritacarne di figure ed emozioni la cui collocazione temporale rischia di farsi confusa, talmente piena di sensazioni è la musica.

Tristitia Amnesia va a ripescare le suggestioni orientali che nei ’70 avevano molto influenzato la musica rock. Qui si sposta addirittura l’ago della bussola verso la musica tedesca di quegli anni. Quindi, altre sovrapposizioni tra Amon Dull con gli inglesi Renaissance e Soft Machine ed echi, piuttosto marcati dei Pretenders, e non solo per la voce della Cunningham. Sciabolate arcobaleniche di psichedelia mentre tutto passa attraverso il filtro multicolore di questa artista in una sorta di ballata elettrica decisamente goduriosa.

Scared of the Dark ha un inizio che parte dai Jethro Tull e prosegue verso i “soliti” territori occupati dalla Cunningham, che detta le sue condizioni. Bisogna dire che, se di assemblaggio si tratta, è realizzato comunque molto bene.

God is a Verb è una parentesi acustica, forse con più originalità in corpo, ma troppo breve per esprimerne un giudizio più circostanziato.

Segue Suck Push Bang Blow, dal titolo vagamente allusivo, che ci porta tra le braccia dell’hard rock, in un brano lento e cadenzato, devo dire ben costruito e talmente vario che è impossibile annoiarsi. Anzi, ascoltandolo mi sono ricordato – guarda come funzionano i ricordi – della copertina di cartone spessa del primo vinile dei Blue Cheer, chissà se qualcuno la ricorda. Pupilla dilatata, rock di buona fattura con un organo in sottofondo probabilmente suonato dalla Cunningham e un bell’assolo di elettrica e queste sono le sufficienti credenziali presentate per questo brano.

The Liner Notes viaggia su un rilassante tempo di ¾ con un piano che occhieggia dietro le quinte e ci permette di percepire bene la voce della Cunningham, peraltro molto convincente, anche se non troppo originale. Ma, dato che in quest’album le sorprese non finiscono, a metà brano il tempo si fa più stringente e la chitarra slide che sottolinea il canto sembra suonata da un redivivo George Harrison.

Ormai ci si prende gusto a indovinare tutti i riferimenti possibili. Infatti, quando è la volta di Number 149, ci caliamo nel pozzo del beat luminoso degli anni ’60 e la nostalgia ci spinge verso la nostra antica collezione di 45 giri per cercare il dove e il quando. Tutto questo però non ci impedisce di goderci l’eterogeneità di questo brano, con tanto di coretti e battito ritmico di mani nel finale. Fantastico! Non mi sono mai divertito tanto!

Fossil song comincia in modo guardingo per avviarsi in una pop song tra cabaret e Supertramp, rimanendo nell’ambito di una generale gradevolezza. Nel finale, wha-wha con assolo di chitarra e chiusura sbrigativa.

 

Rosalie Cunningham

 

Domanda di riepilogo: questo album nasce come un tributo o è un divertimento sui generis, uno sguardo ironico e non troppo distaccato dal passato? Presumo entrambe le cose. Certo non si può definire quest’opera come un esempio di originalità ma credo che la Cunningham sia ben consapevole del suo lavoro. E che si sia abbondantemente divertita a disegnare questo album, pieno di sogni di riporto, è vero, ma anche teneramente sentimentale.

 

Rosalie Cunningham

Two Piece Puzzle

CD Cherry Red Records 2022

Reperibile in streaming su Qobuz 16bit/44kHz e Tidal qualità Master MQA

di Riccardo
Talamazzi
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