Sarebbe un vero peccato perdersi un autore come Sam Burton. Statunitense, nato nello Utah ma stabilitosi da tempo a Los Angeles, imbevuto della naturale giovinezza dei suoi vent'anni o giù di lì, dedica il suo secondo album, Dear Departed, a un “caro estinto” che probabilmente non si riferisce a nessuna persona in particolare ma a un intero periodo storico. In effetti è facile capire a quale margine temporale Burton voglia alludere, con quella voce che colpisce al primo ascolto, dal timbro vocale moderatamente vibrato e che rimanda immediatamente a precedenti rimasti a lungo nella nostra memoria, dal Bob Dylan di Nashville Skyline a Harry Nilsson, da Leonard Cohen – più che altro per la voluttà melodica con cui costruisce le sue canzoni – a Roy Orbinson e Sixto Rodriguez, fino a sfiorare lo spettro benevolo di Tim Buckley.
Una voce decisamente affascinante, quindi, con l'unico handicap riscontrabile in un eccesso di dolcezza, che sul lungo percorso rischia un po' di diventare stucchevole. Ma, per evitare questo insidioso effetto collaterale, conta molto il tipo di approccio a questo artista. Occorre, infatti, abbandonarsi ai climi di questo album, molto melodici e intrisi di nostalgiche malinconie, aspettando che si apra il terzo orecchio, quello interiore. I paesaggi ideali sono i californiani, da quelli più indolenti immersi nel sole e caratterizzati dalle immense spiagge deserte di Malibù fino al quartiere losangeliano di Laurel Canyon, con i suoi ricordi della controcultura rock tra i '60 e i '70. Una West Coast lontana, però, dalle irrequietezze acide del tempo e più vicina alle atmosfere sognanti di un Crosby già maturo ai tempi di The Lee Shore e di Déjà vu. Le sonorità di Dear Departed, occorre essere chiari, sono tutt'altro che moderne, anzi a mio parere decisamente retrò, e in alcuni punti l'impressione è quella di risentire la colonna sonora di un vecchio road-movie americano mentre sfilano i titoli di coda. Il naturale candore dell'approccio artistico di Burton si snoda attraverso ballate sviluppate su tempi moderati, con grande partecipazione degli archi e degli arrangiamenti orchestrali che rendono questo album circonfuso da una foschia quasi country-classic-pop, andando a ripescare nodi emotivi non ancora definitivamente sciolti nella lunga epopea californiana dei sixties. La struttura armonica delle canzoni è semplice ma, come si suol dire, efficace nella sua immediatezza. I singoli brani hanno tutta l'aria di essere stati realizzati spontaneamente, certamente non forzando loro la mano e anche se in alcuni casi si scivola un po' in una placida monotonia, il risultato complessivo resta in definitiva emozionante e pur sempre coinvolgente.
Accanto a Burton alla voce e alla chitarra si muove una cerchia di musicisti che già si conoscono tra loro per aver suonato in alcune realizzazioni del produttore e a sua volta autore Jonathan Wilson, qui presente alla batteria. Alle tastiere e agli arrangiamenti d'archi troviamo Drew Erickson, al piano e all'organo Grant Milliken, Jake Blanton al basso e Andrew Bullbrook al violino.
Pale Blue Night ci arriva così, sulle note di un paio di accordi di chitarra acustica, una batteria essenziale e un basso a girare intorno a questo canto che sembra una melopea liturgica. Poi l'entrata degli archi e di un controcanto femminile, quasi nascosto. La canzone ha suadenti movenze di note distese sulla voce, rimanendo sospesa tra cielo e terra, coinvolta in un certo gusto freak d'antan, con una coda d'archi avvolgenti e romantici come nei brani di un redivivo Nick Drake.
I'Dont Blame You è un delicato valzer arpeggiato dalla chitarra con il coro femminile che costeggia le rive della melodia come accadeva spesso nelle canzoni di Leonard Cohen. Un brano voluttuoso, eccellente pur nella sua costruzione così semplificata. La voce di Burton ha un'intonazione sicura ma è allo stesso tempo fragile, non ha un assetto potente e conta molto sulla costante dolcezza dell'emissione di fiato. Anche qui archi a profusione grazie agli arrangiamenti del già citato Erickson, sicuramente ben fatti anche se a tratti si sarebbero potuti alleggerire un po' di più.
Long Way Around è una ballatona che mi ha ricordato Danny O'Keefe e forse anche certe velature alla Townes Van Zandt. Insomma, Burton ricorda tutto e niente, lo possiamo avvicinare a decine di autori del passato. Eppure, in qualche modo, riesce a mantenersi equidistante da tutti. Buoni gli inserti occasionali di chitarra elettrica che intervengono nelle rifiniture di colore. Solo i violini sembrano troppo viscosi ma l'economia globale resta sempre piacevolmente rilassata e serena.
Empty Handed mi sembra la traccia più debole dell'album, con una linea melodica assai poco convincente e anche un po' noiosa.
Maria riacquista i connotati country e la voce di Burton mi è sembrata timbricamente molto vicina a quella dylaniana di Nashville Skyline, tant'è vero che non sarebbe stato fuori posto il vocione di un Johnny Cash redivivo ad accompagnare almeno una strofa. E, se provate a cantarci sopra Lay Lady Lay, sentirete che tutto funziona, almeno fino a un certo punto... La costruzione melodica è leggermente più complessa delle altre canzoni, piano e organo s'intrecciano con la chitarra acustica per formare un arrangiamento un po' più amalgamato con i violini.
I Go to Sleep, introdotta da un break di batteria, resta sempre in ambito dylaniano, con il verbo lirico e rarefatto adottato da Burton che stigmatizza l'album da cima a fondo. Un piccolo assolo di chitarra, se vogliamo chiamarlo così, in coppia con un accordo pieno di organo interrompe il canto risonante dell'autore, almeno per un poco.
Looking Back Again cerca uno sviluppo melodico più personalizzato, con un numero maggiore di accordi e di cambi tonali, passaggi da modi maggiori a minori che tendono a movimentare lo spazio sonoro e a rendere questo pezzo tra i migliori dell'album.
My Love tira dalle parti dei Buffalo Springfield e dei Mama's and Papa's e c'è effettivamente da chiedersi se il caro estinto se ne sia andato sul serio o se lo si possa trovare ancora vivo e vegeto da qualche parte... Ma del resto questa è la scelta stilistica di Burton e comunque il suo tocco gentile è così convincente che facilmente ci si fa ipnotizzare e si tende a restare in questa piacevole trance il più a lungo possibile.
Comunque sia, questo Dear Departed è un bel disco. Ben cantato, ben suonato, forse troppo arrangiato con un eccesso di archi ma piacevole all'ascolto e perché no, intelligentemente disimpegnato. Teniamo presente che Burton è giovane, desideroso di sintonizzarsi con il proprio animo senza troppi concettualismi e che inoltre si esprime con chiarezza d'intenti, utilizzando il suo tramite vocale come meglio non si potrebbe. Anche la sua scrittura, nonostante sia veramente poco originale, è realizzata con criterio e cognizione di causa. Con semplicità, certo, ma capace di puntare dritto al cuore.
Sam Burton
Dear Departed
CD e LP Partisan Records 2023
Reperibile in streaming su Qobuz 24bit/96kHz e Tidal 16bit/44kHz