Voglio sbilanciarmi, a costo di essere esposto al pubblico ludibrio per i giorni a venire. Questo Uncivil war di Shemekia Copeland è uno dei dischi di rock-blues più belli tra quelli usciti in questi ultimi dieci anni. Cantato bene, suonato anche meglio, straboccante di quella bella energia vitale che trascina gli amanti del genere, e non solo, in un Eden di sensazioni robuste e viscerali che rispecchiano a pieno diritto l’essenza del blues.
La Copeland arriva al decimo disco in corso con una carriera brillante e piena di riconoscimenti ufficiali. La genetica non è un’opinione, e il DNA paterno, quello di John Copeland, entrato di diritto nella Blues Hall of Fame nel 2017, purtroppo parecchi anni dopo la morte, ha lasciato traccia incontestabile in questa donna, nel suo canto pulito, potente, quasi mai roco, perché la sua voce non ha bisogno di forzature per essere convincente. La Copeland, infatti, possiede una perfetta stabilità di tono e una naturale pulizia nella dizione, che fa intendere le parole anche a chi, come me per esempio, non può vantare una buona conoscenza dell’inglese.

Un lato molto interessante di questo lavoro sta anche nell’impegno politico dei suoi testi, un impegno già avvertito da altri musicisti neri, per esempio nelle intenzioni del giovane jazzista Immanuel Wilkins e di altri ancora, segno che i tempi sembra che stiano per virare verso una maggior presa di coscienza da parte dei musicisti soprattutto americani per tutto quello che avviene nella società globale odierna.
Attorno alla cantante ruota un numeroso gruppo di valenti musicisti tra cui il chitarrista Jason Isbell, già nei Drive by Truckers, l’imponente Christone Kingfish Ingram, che vanta passate collaborazioni con Eric Gales, Keb Mo e Buddy Guy, Jerry Douglas, mago della lap steel guitar, Webb Wilder e nientepopodimeno che una leggenda vivente come Duane Eddy. Ma questo Uncivil War non è solo un disco di chitarristi, è anche il luogo dei cori gospel degli Orphan Brigade e della ritmica inappuntabile intrisa di R&B sostenuta dal basso di Lex Price e dalla batteria di Pete Abbott.
La Copeland trova lo spazio per omaggiare il ricordo di Dr. John con Dirty Saint, giusto prima della cover rollingstoniana di Under my thumb, in cui il beat giovanile degli Stones viene trasformato in un torrido passaggio rasoterra che ricorda alcune cose dei Creedence Clearwater Revival, un brano che sa di alligatori e paludi, forse il momento che preferisco accanto al seguente Apple pie and a.45. Quest’ultima traccia inizia con un dobro quasi country ma poi confluisce nel grande fiume del blues con un assolo della chitarra di Will Kimbrough, capace di scorticare un armadillo, tant’è aspro e cattivo. Si scende un po’ con She don’t wear pink, forse troppo leggerina rispetto al peso globale dell’intero disco. Per acquisire in pieno della Copeland il “feeling blues”, come si diceva una volta, bisogna calarsi nell’oscurità, appunto, di In the dark, dove le sue qualità vocali emergono in modo naturale. Conclude Love song, dedicata al padre John, un classico dodici battute privo di smancerie, asciutto così come si conviene allo spirito dell’intero disco.
Shemekia Copeland
Uncivil war
CD Alligator Records 2020
Reperibile su Qobuz 16/44kHz