Se non credete nella reincarnazione, come del resto non ci credo io, beh, è arrivato il momento di cambiare idea. Quando vi capiterà di ascoltare questo Wave in Gravity per piano solo di Simona Premazzi avrete la certezza di come, in questo caso, vi siano non uno ma ben due anime che abbiano scelto l'esile corporatura di questa pianista italiana di Busto Arsizio per suonare attraverso lei. Da una parte l'obliquo spettro di Thelonious Monk e dall'altra l'animula vagula di Bud Powell. Certo, si sta scherzando. Nessuno vuole oscurare i meriti propri di questa straordinaria musicista che vive attualmente a New York da quasi vent'anni. Ma è fuor di dubbio che difficilmente si possano ascoltare pianisti possedere questo imprinting così evidente, almeno come appare in un buon numero di brani di questo album, tra cui uno fra tutti composto proprio da Monk ma suonato come l'avrebbe fatto Powell.
C'è un particolare che risalta subito, ascoltando questa musicista, non sempre riscontrabile in altri suoi colleghi. Con un po' d'attenzione si riesce a seguire il lavoro a incastro che la mano sinistra esegue sui bassi e spesso si può cogliere la relativa autonomia di questa linea che, se presa in solitudine, vive di una sua personale brillantezza.
La Premazzi è portatrice sana del virus peggiore tra tutti quelli che circolano liberamente sulla Terra, cioè quello che ti fa venir voglia di ammalarti sempre di più di musica. Questo perché l'ascolto del pianismo dell'artista, ormai newyorkese, è talmente brillante, fantasioso e coinvolgente che sembra avvincere l'ascoltatore in un turbine crescente di note. Non che non vi siano momenti di quiete – non molti, per la verità – nel suo disco, ma ciò che colpisce è l'incalzare di una serie di costruzioni fantasmagoriche, poste una sull'altra a incastro come una sorta di Lego in cui al posto dei celeberrimi mattoncini vi siano i tasti del pianoforte. Inoltre, la Premazzi ha una curiosa modalità di eseguire i suoi assoli, perché, se da un lato il flusso sonoro lo si avverte nella sua omogeneità, dall'altro si ha l'impressione opposta, cioè di frasi che escano a frammenti, “a singhiozzo”, come argutamente scrive il critico Ben Ratliff del New York Times. Eppure, si ascoltano, tra gli imprevedibili salti delle mani sulla tastiera, anche alcuni ricordi classici – Bach, come vedremo – ma senza tocco accademico. Anzi, la personalità della Premazzi “spacca”, come ascolteremo nella seconda traccia dell'album, dove all'arcinota melodia bachiana si sovrappone una nervosa sovrastruttura che sembra combattuta tra due tensioni opposte: una, quella più blasfema di disfare ciò che Dio ha creato, e l'altra, più conservatrice, di omaggiare il re dell'Armonia, ma a modo proprio.
Premazzi ha avuto sicuramente buoni maestri. In Italia, da Massimo Colombo a Franco D'Andrea e certo non è da trascurare il ruolo del Conservatorio di Udine. Ricordiamo che ha fatto parte della big band di Enrico Intra per quattro anni, ma è stato negli USA che la sua personalità è emersa a contatto con degli inneschi esplosivi come Greg Osby, Jeremy Pelt, Melissa Aldana e Victor Lewis, solo per citarne alcuni.
E ora veniamo all'analisi delle tracce. Si parte con un originale di Cole Porter – da non confondere con l'omonimo brano dei Five Satins che trovate nel film American Graffiti – e cioè In the Still of the Night del 1937. Le prime battute riportano da subito le note della melodia, riproposte in una forma destrutturata seppur non radicale – da questo punto più estreme sono le decostruzioni di D'Andrea, ad esempio – ma poi ci sono questi finti “inciampi”, questi intervalli inaspettati e destabilizzanti tra le note, questi cambi di tempo, dei rubati imprevisti da chi ascolta, insomma una serie di invenzioni, se vogliamo chiamarli così, in uso nel bagaglio di Monk. Il brano prosegue sempre restando tra la melodia del tema che, verso le fasi conclusive, sembra riprendere spazi e quota.
Passiamo poi al brano più ambizioso di tutto l'album, uno di quelli che, se eseguito in questo modo, nei Conservatori degli anni '50 sarebbe quasi costato l'espulsione con ignominia. Si tratta di una rivisitazione di una cantata di Bach, la G minor Thing/ Wachet Auf BWV 140, riconoscibilissima quando lo sentirete emergere da una corolla di note concentriche che la Premazzi prepara con attenzione. Ora, si può essere più o meno d'accordo di fronte a queste scelte di rivisitazione, alcuni ma non io potrebbero esserne scandalizzati, altri provarne fastidio. Invece prevale l'effetto sorpresa, infatti la combine tra musica antica e sensibilità moderna può portare a risultati interessanti come questo.
Smoke Stack è un brano originale di Andrew Hill del 1966 che compare all'interno dell'omonimo album, un celeberrimo Blue Note registrato presso lo studio di Van Gelder nel New Jersey. La traccia di Hill era eseguita in quartetto mentre qui la Premazzi se la deve cavare da sola. Le riesce tutto bene. Da una parte preserva il tema e dall'altra misura sulla tastiera il suo incarnare metaforicamente parte dello spirito dell'autore, mescolandovi insieme anche quelle certe insistenze monkiane, quelle dissonanze – più lievi, nel caso della pianista italiana – che arricchiscono, lasciando invero pochi spazi tra le note, la struttura musicale definitiva.
Between Spheres è una pura improvvisazione, apparentemente senza una direzione precisa, che si sviluppa in un cambio continuo di arrampicate tonali attorno alla nota Mib, quasi una sorta di complicata e irrisolta introspezione. Comunque, una parentesi meno interessante delle altre tracce fin qui ascoltate.
Arriva poi una composizione della stessa autrice, con un titolo preso a prestito da un verso di una canzone della West Coast Pop Art Experimental Band, I Won't Hurt You, edita nel 1966 nell'album Part One. Il titolo di questo brano, lungo quasi come il già chilometrico nome della band, è I'll Take a Spaceship and Try and Go and Find You. Una specie di love song che si presenta con un'insolita ipotesi modale in partenza da un accordo minore di Re ma che poi nella sua progressione viene superata e infine ripresa più volte lungo il decorso del brano. La Premazzi approfitta del bordone per scandagliare la possibilità dell'out of tune, cercando di portarsi fuori scala laddove è possibile. Se c'è un eventuale difetto che mi permetto di segnalare sta nel fatto che il tocco della pianista non sembra prendere in considerazione le variabili dinamiche, per cui rapporti sonori tra un piano e un medio-forte sembrano assomigliarsi tutti entro i limiti di un certo appiattimento globale. Peccato, perché, in un brano emotivo come questo, una maggior attenzione alle suddette dinamiche non avrebbe guastato.
La traccia che segue è un vecchio standard firmato Rodgers & Hart del 1927, My Heart Stood Still. Inserita nel tritacarne di un be-bop serratissimo ed esuberante, la linea melodica non lascia respiro e, se da una parte evidenzia la grande padronanza tecnica e armonica della pianista, dall'altra, cancellando pause e parentesi, rende forse un po' troppo omogeneo l'impiantito sonoro.
Veniamo ora a Monk's Mood, un pezzo di storia del jazz anni '50-'60 pubblicato in Thelonious Himself nel 1957, un album quasi in solo ma che proprio in questo brano vedeva coinvolto John Coltrane al sax e Wilbur Ware al contrabbasso. E qui succede qualcosa che non mi sarei aspettato. Proprio sulla traccia di Monk, che nella versione originale procede lenta e tentennante in quello stile proprio dell'autore in cui sembrava spesso rallentare l'esecuzione alla ricerca della nota... “sbagliata”, la Premazzi alterna momenti esuberanti ad altri meno, rivedendo Monk con un piglio molto personale e infarcendo il tutto con fughe di scale ascendenti e discendenti, quasi a voler celare, più che rivelare l'anima dell'autore.
La title track Wave in Gravity ribadisce non solo, come se ce ne fosse ancora bisogno, tutto il bagaglio tecnico della pianista ma anche il suo desiderio d'avventura e dell'imprevedibile. La sua musica si distende in una “onda gravitazionale” che ne guida l'assetto, a tratti misterioso, come quasi impenetrabile è, per un profano, la comprensione della Relatività Assoluta a cui, forse, questo brano allude. Perché i continui cambi tonali tolgono i normali riferimenti gravitari e può essere complicato distinguere, in questa circostanza, l'alto dal basso.
Back Seat mostra un raro lato più meditativo riguardo l'improvvisazione della Premazzi. Pure il tocco si fa più sensibile, e ne viene fuori un affresco a tinte, se non delicate, meno decise del solito.
In coda all'album ricompare uno standard e si tratta di On a Slow Boat to China di Frank Loesser, edito nel 1948, un brano che forse alcuni tra noi – non i più giovani – potranno ricordare nell'interpretazione di Dean Martin. Non si trattava di una melodia trascendentale già di per sé e diciamo che la pianista la rende decisamente più appetibile, attraverso un luminoso e moderato trattamento be-bop caratterizzato da brevissimi tratti dinamici della mano sinistra e da una destra che prova a reinventarsi un mondo ex novo.
Premazzi è in continua, iperbolica crescita. Lo testimoniano non solo le critiche unanimi e ottimistiche della stampa USA ma, anche di fronte a un ascolto pur superficiale di quest'album, non si può che confermare quest'opinione. Il pianismo odierno, almeno come si configura attualmente nell'ambito del jazz, vive uno strano metacronismo. Aspira giustamente a un'immagine proiettata nel futuro eppure non riesce ancora a regolare i suoi conti coi maestri del passato prossimo. Tanto che questi spiriti guida ancora posseggono i loro allievi, che ne vengono guidati, consciamente o meno, nelle loro traiettorie, al netto di ogni eventuale reincarnazione.
Simona Premazzi
Wave in Gravity
CD autoprodotto 2023
Reperibile su Tidal 16bit/44kHz e Spotify mp3 320kbps