Se si pensa a Joseph Henry Burnett, alias T-Bone Burnett, le prime credenziali che ci vengono in mente son quelle di un brillante produttore ma anche di un autore forse un po' meno apprezzato di come in realtà potrebbe essere. Perché T-Bone è sicuramente uomo intelligente e capace, responsabile in parte del successo di gente come Roy Orbison, Elton John, John Mellencamp, Elvis Costello, Steve Earle, Leon Russell, Los Lobos, Robert Plant e molti altri. Un musicista settantaseienne che, dopo aver condiviso il palco con Bob Dylan, mise insieme la Alpha Band dalla dissoluzione del gruppo di musicisti che seguiva la Rolling Thunder Review, una tournée messa in piedi dallo stesso Dylan tra il '75 e il '76, qualcosa come cinquantasette concerti su e giù per gli States... Insomma, un uomo per tutte le stagioni, potremmo dire, ma sicuramente più abile nella produzione di altri artisti che non nel perseguire la propria carriera di autore e cantante. Non rammento lavori epocali firmati da Burnett ma solo una serie di buone pubblicazioni, dal 1980 a oggi, sempre piuttosto stimolanti ma mai veramente memorabili. Perché Burnett è sempre stato, al di là di ogni possibile errore di sottovalutazione, un musicista e compositore interessante ma pur sempre incanalato sulla scia altrui, capace di un mainstream che possiede tutti gli attributi possibili ma fondamentalmente manchevole di originalità.
Così è, se vi pare, al netto di tutte le grida di giubilo che mi giungono alle orecchie, per quello che riguarda il nuovo e pur piacevolissimo lavoro intitolato The Other Side. Un altro lato ci sta sicuramente, nella personalità artistica di Burnett. Egli vuole dimostrare – al di là delle ultime discutibili prove del 2019 e del 2022, la saga dell'Invisible Light – di essere un autore scevro dall'eleganza poco sapida degli ultimi anni per proporsi infine come folk singer, approfittando della sua voce, un po' appannata dall'età, che gli configura comunque quel profilo interessante comune agli artisti d'esperienza, quelli che hanno trascorso la loro vita affinando la lente del loro occhiale critico, per meglio opinare sulle reali sfaccettature del mondo.
The Other Side si presenta coma un insieme di canzoni dal costrutto armonico elementare, poche note cantabili ma, come si suol dire, efficaci, improntate a un fingerpicking basico dal sapore country blues operato dallo stesso Burnett. Questo “back to the roots” dimostra essere una scelta vincente, perché i brani così composti risultano freschi, musicalmente lievi, rivestiti da un abito confezionato con semplicità e sicura presa emotiva. Restando perfettamente in linea con la tradizione folk blues bianca americana, Burnett riesce a concepire un album d'interrogazioni sospese, allontanandosi dal patrimonio di certezze di certo fariseismo cantautoriale di molti suoi colleghi. Tutto questo, innanzitutto, ragionando ad esempio sul semplice pronome “tu”. Dice infatti Burnett: “...mi son reso conto che quando un autore usa la parola “tu” ... è nel mondo della coscienza ma anche nel mondo dei sogni, e quando la tua voce è nel mondo dei sogni delle persone devi stare molto attento con loro”, fonte Tinnitist, articolo di Danny Sterdan del 19/04/24, vedi qui. Un'ammissione di responsabilità che deriva da anni d'interazione, diretta o meno, col pubblico. La stessa critica che Burnett rivolge al modo con cui ci si raffronta musicalmente alle persone. Infatti, si parla appunto del “tono conciliatorio” che ha preso piede nel suo universo, non solo artistico, al posto di precedenti, eventuali atteggiamenti conflittuali. “Viviamo su un pianeta ostile... il mondo non è cambiato ma ciò che si è modificata è la mia risposta a quel mondo... Sono troppo vecchio per essere un giovane arrabbiato”, fonte Paste Magazine, intervista raccolta da Geoffrey Himes il 22/04/24, vedi qui. In conseguenza di ciò i brani del suo ultimo album appaiono raccolti in un breviario di semplici osservazioni sulla quotidianità in cui le eventuali riserve polemiche sembrano addolcite e pacificate anche se non del tutto deprivate da scetticismo e disillusione.
Questa volta Burnett non è il solo produttore di sé stesso ma chiede aiuto ad altri due amici coproduttori come Colin Linden e Mike Piersante. I musicisti che accompagnano Burnett, oltre al già citato Linden, che oltre a partecipare alla produzione suona anche la chitarra e il dobro, sono il bassista Dennis Crouch, Stuart Duncan al violino e mandolino, Jay Bellerose alle percussioni, Steven Soles alle chitarre e Rory Hoffman alle tastiere, chitarra e clarino. Presente inoltre il duo corale femminile delle Lucius, insieme agli interventi vocali di Weyes Blood, Peter More e l'ospitata di Rosanne Cash. Il risultato complessivo è quindi un album quasi completamente acustico, privo di batterista, ma che brilla della propria essenzialità e spontaneità.
Primo brano è He Came Down, ben cantato e suonato dalla chitarra di Burnett e dal dobro di Linden. Melodia semplice ma intensa, un po' alla Dylan prima maniera. La nota curiosa è la divisione dei canali stereo. I due strumenti sono sovrapposti su uno stesso canale – il sinistro – mentre la voce è statuariamente posta al centro. Comunque, l'effetto globale è più che positivo.
Come Back (When You Go Away) è un altro piccolo capitolo del regime acustico che vige rigorosamente in questo album, ma certamente non si può dar torto al suo autore per questa scelta, in quanto il brano possiede una sua delicatezza veramente gradevole e moderatamente malinconica. Qui, oltre alla chitarra di Burnett e al dobro di Linden – questa volta nei due canali stereo separati – c'è un'altra chitarra che si sovrappone centralmente, probabilmente sovraincisa dallo stesso Linden.
(I'm Gonna Get Over This) Some Day vede la compartecipazione alla seconda voce di Rosanne Cash in una traccia country in cui compare una percussione, il basso in un ferreo 2/4 di Crouch e un tocco di chitarra elettrica. Tutto molto delizioso e orecchiabile.
Waiting for You è una classica love song con un bel basso pieno e il controcanto del duo Lucius. Una slide armonizza in lontananza mentre il ritornello in scala misolidia unisce i tratti dell'inciso. Un brano semplice ma da incorniciare per la sua naturale e composta essenzialità.
The Pain of Love è appena più convenzionale nel suo ritmico incedere country western. Sempre le Lucius a sussurrare nei coretti. Questo brano avrebbe potuto far ricordare alcune cose di Leonard Cohen se fosse stato cantato con un assetto ritmico più lento, magari in forma di ballad.
Nella successiva The Race is Won si ascolta una tastiera suonata da Roy Hoffman dondolarsi in un pezzo un po' dolciastro che ricorda certe melodie acustiche del folk britannico, con il mandolino campestre di Duncan a incrociarsi con le voci fatate delle due Lucius.
Sometimes I Wonder prende la direzione del blues acustico con tanto di handclap in un brano accreditato anche a Colin Linden che interviene attivamente con un paio di begli assoli di chitarra acustica ed elettrica, misurati al millimetro per le esigenze della traccia. L'intervento della voce femminile è quello di Weyes Blood.
Hawaian Blue Song fu scritta nel 1974 a tre mani da Burnett, Steven Soles e Bob Neuwirth ed è rimasta inedita e un po' incompleta, fino a quando lo stesso Burnett ha deciso di trovarle posto in questo album. Duncan si occupa dei violini mentre il solito Linden sfrega le corde del suo dobro come avrebbe magari fatto Ry Cooder, al cui stile, questo brano, decisamente tende ad avvicinarsi.
The First Light of Day è tra i pezzi più sorprendenti dell'intero lavoro, dato che inizialmente sembra un valzerino comune in stile country, però poi il ritornello crea un inaspettato sviluppo che ne sottolinea l'aspetto melodico e poetico.
Everything and Nothing conserva un pizzico dello spirito polemico che Burnett dice di aver superato: “tutti vogliono la pace ma nessuno vuole arrendersi” e ancora “tutti vogliono tornare al passato ma nessuno ricorda”. Sottoforma di ballata addolcita dalla voce gentile di Burnett e sorretta da una chitarra elettrica, la traccia ospita il clarino di Hoffman con il mandolino più il violino di Duncan.
The Town That Time Forgot ha un testo drammaticamente distopico – “quando perdi un poco hai perso tutto e quello che è non è più” – reso ancora più incisivo dal coro gospel delle Lucius.
Finale nostalgico con Little Darling, canzoncina dai modi gentili e dai molti rimpianti.
Si avverte una primitiva voluttà nell'ascoltare questo disco. Perché in fondo sembra di godersi un'oasi di freschezza acustica, un ritorno a lavori semplici e più lineari. E dato che T-Bone Burnett conosce bene i trucchi del mestiere, The Other Side se ne giova appieno, nonostante la scrittura sia un po' troppo derivativa. Anche se lui appartiene al circuito nobiliare statunitense dei musicisti “che contano”, tuttavia la sua arte risente di un eccessivo classicismo che appare alle mie orecchie un po' ingessato. Comunque, non mancano Bellezza e Sobrietà in questo album, due qualità che ce lo fanno benvolere a priori.
T-Bone Burnett
The Other Side
CD e LP Verve 2024
Disponibile in streaming su Qobuz 24bit/44kHz e su Tidal qualità max fino a 24bit/192kHz