Non sono mai stati una struttura dissipativa, i Bad Plus. Anzi, da un certo punto di vista, questo gruppo ha sempre cercato di realizzare al meglio, nonostante le difficoltà, tutto il suo potenziale creativo. Il trio ha una storia un po' faticosa che parte ufficialmente nel 2001 con l'uscita del primo album ma che comincia a complicarsi solo quindici anni dopo. Succede con la rinuncia del pianista Ethan Iverson, che lascia soli gli altri due musicisti della band, cioè il batterista Dave King e il contrabbassista Reid Anderson, questi ultimi i veri fondatori del progetto Bad Plus.
Iverson se ne va perché attratto da nuovi percorsi paralleli e viene così sostituito da un altro valido pianista come Orrin Evans. Ma anche questi abbandona la nave dopo aver realizzato, con King e Anderson, tre dischi dal 2018 al 2020. In effetti tutto poteva far pensare alla fine dei giochi e King ha rivelato come tale ipotesi fosse stata valutata come possibile opzione. Ma, in fondo, dopo più di vent'anni e sedici uscite discografiche nella loro carriera, più una serie di singoli, King e Anderson decidono, invece che buttare all'aria il giocattolo, di trasformare il trio in un quartetto pianoless, inserendo in formazione un fiammeggiante chitarrista come Ben Monder e il sassofonista Chris Speed.
I due nuovi acquisti non sono una coppia di musicisti qualsiasi. Il newyorkese Monder viene dalla Maria Schneider Orchestra e si è fatto conoscere nell'ambiente rock – questo non è un dettaglio di poco conto, come vedremo – per aver partecipato all'ultimo disco di David Bowie, l'epitaffico Blackstar del 2016. Altro particolare da considerare è che il chitarrista e Reid Anderson avevano già suonato insieme in uno dei progetti solisti dello stesso Anderson, The Vastness of Space, pubblicato nel 2000. Chris Speed, dal canto suo, aveva in precedenza lavorato con King nel suo Chris Speed Trio, vantando inoltre una collaborazione contemporanea sia con lo stesso King che con Anderson accanto a Tim Berne.
Ecco che allora il quartetto così composto arriva all'incisione di questo ultimo, omonimo The Bad Plus. Ho da sempre provato simpatia e piacere nell'ascolto di questa band, fin dagli esordi, perché non aveva remore a mostrarsi come effettivamente era, al netto dei cambiamenti di formazione, e cioè un intreccio bizzarro di vari stili e in modo particolare rock, jazz e avanguardia, ma senza aver nulla in comune o quasi con il classico jazz-rock alla Return to Forever, per intenderci. Il loro orizzonte di riferimento è molto vasto. Mi son fatto l'idea che in fondo tutto origini dai Soft Machine dei '70, passi attraverso alcune suggestioni kingcrimsoniane, tocchi formazioni più recenti come i Morphine per approdare ai profili di un Nels Cline o di John Zorn.
Come si può osservare si tratta di influenze che provengono da quel vasto territorio di confine tra rock e jazz, incrementato da scampoli di effettismo rumorista e qualche tentativo di corteggiamento della galassia avantgarde. Paragonando questo ultimo album in quartetto ai precedenti – anche se val la pena ricordare due esperienze in tetrade, una nel 2009 con la cantante Wendy Lewis e un'altra più recente con il sax di Joshua Redman nel 2015 – ci si accorge di come vi siano differenze di forma ma stabilità di sostanza. La componente ritmica resta il carburante principale per il funzionamento del motore. La chitarra s'imbizzarrisce spesso, dimostrando profonda affinità con lo spirito selvatico del rock – non dimentichiamo le molte cover di gruppi pop-rock che i Bad Plus hanno eseguito nella loro carriera, dai Nirvana ai Black Sabbath, dai Tears for Fears a Bjork e persino ai Pink Floyd – mentre si prende atto della linearità del sax, qui maggiormente impegnato a seguire le melodie piuttosto che lasciarsi andare alla naturale voracità dei fiati che riscontriamo nei gruppi di puro jazz.
Insomma, l'impressione che si può avere attualmente è che la band organizzata in questo quartetto sia ormai molto lontana dal jazz così come abitualmente lo si intende – e forse tanto vicina non lo è mai stata – ma che non abbia perso un grammo della sua creatività e fantasia. E l'entusiasmo di questi musicisti arriva a larghi tratti all'ascoltatore che si fa piacevolmente coinvolgere negli ubriacanti vortici sonori innescati via via.
S'incomincia con Motivations II, aperto da un giro insistente di contrabbasso, mentre il sax letteralmente ci canta sopra una semplice e malinconica melodia. La chitarra di Monder crea un plasma di colore in lontananza, giusto per dare la necessaria profondità piena di riverbero allo svolgersi del brano, sorretto da una vigorosa ma controllata sinergia della parte ritmica. Nel finale il sax si scolla dall'impronta obbligata del suo sentiero melodico ma lo fa con levità e con pennellate ariose. Un gran bell'incipit, mi viene da commentare.
Esplode invece, letteralmente, Sun Wall, non solo un muro di luce ma anche di suono, con Dave King che d'autorità conduce il pezzo menando colpi di tamburo e di piatti a destra e a manca. Viene poi il momento della chitarra e Monder scopre da subito le sue carte. Raddoppiando inizialmente in sincrono un frammento del tema insieme al sax, ben presto se ne allontana. Non più la delicata trama coloristica del brano precedente ma una convulsa struttura ipervitaminizzata, un tappeto di suono rumoroso ma straordinariamente efficace, dove scale ed espressionismo vitalistico si fondono, riprendendo poi il tema iniziale condotto in compagnia del sassofono. Finale direi classicamente rock con batteria a scandire le battute e il fiato di Speed che allarga la melodia rimanendo comunque sempre nell'ambito del cantabile, senza perdere il filo dell'impostazione lineare del brano stesso.
Not Even Close To Far Off dimostra una spinta rock potente come finora mai avvertita. Tra la ritmica di una macchina lisergica come quella degli Hawkwind e i granitici riff alla Black Sabbath, si fa strada il sax che, dopo il tema elementare e convincente, si lascia andare alla deliziosa anarchia dell'improvvisazione fino a essere ripreso dal battito primordiale e rituale della premiata ditta Anderson & King. La chitarra si sposta in secondo piano e si abbandona a un continuo surfing tra strappi ritmici e sciabordio elettrico.
You Won't See Me Before I Come Back si presenta come oasi di dolcezza, dopo tanto robusto incedere. Un brano vincente dal punto di vista melodico, suonato da dio, mai melenso o arreso a qualsiasi sdolcinatezza. Sembra di ascoltare i migliori Gentle Giant, con il sax che intona sempre la sua linea cantabile a cui siamo stati abituati nel corso dell'album. La chitarra si concede degli arpeggi e si lascia trascorrere in un assolo delicato che appare come un colorato tramonto tra le coltri nuvolose del contrabbasso e della batteria. Meravigliosa parentesi da playlist, il brano ideale da far ascoltare a chi i Bad Plus non li ha mai considerati prima.
Di tutt'altro avviso è Sick Fire, pezzo avanguardista di free jazz dove tutti si scatenano in un divampante clima di tensione, peraltro ben organizzato dal contrabbasso e dalla batteria che non cedono un centimetro dalle loro posizioni di frontiera. Non si fa pregare la chitarra che disegna convulse geometrie dentro cui il sax manifesta tutta la propria effervescenza, sentendosi – finalmente? – libero da ogni schema melodico.
Stygian Pools dimostra quasi una doppia faccia, immergendosi nelle acque tristi e un po' cupe del tema innescato da Speed. Qualche stacco ritmico cerca di non far scivolare il brano in territori malinconici troppo accentuati, ma da questo tipo di rischio i Bad Plus sono immuni, mantenendosi lontani da qualsiasi difetto sia per la bellezza del suono del sax di Speed che per i tenui arpeggi della chitarra. La sottolineatura continua dell'assetto basso-percussivo s'insinua tra le rarefazioni pastorali della traccia che, pur mantenendo un incedere complessivamente crepuscolare, non s'affloscia mai su di sé.
In the Bright Future si propone con un cominciamento etereo in cui il sax gioca sulle note alte, quasi a dar l'impressione di emulare un flauto. Questa traccia si mostra in una certa continuità con quella precedente, sembrerebbe perfino costituirne una sorta di parte evolutiva. Bello il dialogo tra il tema sostenuto dal sassofono con la chitarra che si esprime in continui, frastagliati lampeggiamenti.
L'ultimo brano, The Dandy, nonostante mi abbia ricordato nell'accompagnamento della chitarra un brano degli australiani Go-Betweens, si dimostra come un curioso e molto ben riuscito assemblaggio tra jazz alla Pat Metheny, rock, pop e melodismo orecchiabile. I Bad Plus possono camminare sul crinale quanto vogliono ma non rischiano mai di perdere il controllo e di cadere, lungo qualsiasi sentiero impervio possano mai intraprendere. Questa traccia finale è luminosa, robusta, talmente piacevole che per quanto mi riguarda potrebbe durare una mezz'ora senza mai stancarmi.
I Bad Plus non hanno ideologie da articolare – o eventualmente da smontare – perché il loro credo è fondamentalmente semplice e si sviluppa attraverso una musica che con il jazz ha, secondo me, contatti più estetici che strutturali. Piacciono e molto, del resto la loro ventennale carriera lo dimostra, per contrasto sia agli amanti del jazz più giovani e non sclerotizzati dal solito mainstream e sia ai rockkettari più anziani, soprattutto quelli più vicini alle evoluzioni progressive e jazz rock dei '70. I loro cerimoniali sono esperiti immediatamente in quei ritmi, più elaborati di quanto non si creda, che appaiono spesso come precisa appartenenza semantica al rock. E se fino a qualche anno fa era affidata al pianoforte la difesa della roccaforte jazz ora sono il sax e la chitarra a occuparsi delle zampillanti invenzioni armoniche percorribili in tutto l'album. Un orecchio ben temperato non può permettersi di non tenere in considerazione questa band, se non altro perché qui non si patisce mai la noia né si è costretti a camminare sui pezzi – di vetro – di estenuanti maratone improvvisative.
The Bad Plus
The Bad Plus
CD e LP colorato Edition Records 2022
Reperibile in streaming su Qobuz 24bit/96kHz e Tidal 16bit/44kHz