The Black Keys | Delta Kream

17.09.2021

All’aspetto, questo duo che forma i Black Keys sembra tutto tranne che una coppia di musicisti blues, nemmeno di quello un po’ sciapo che si può suonare nelle periferie più bianche delle città. Invece, Dan Auerbach e Patrick Carney sono pazzi di blues, veramente malati gravi, e i loro numi tutelari sono i musicisti della parte Nordest del delta del Mississippi, la Hill Country. Ispirati prevalentemente da Junior Kimbrough e Robert Lee Burnside, queste chiavi annerite girano nelle toppe di una musica piena di gravità terrestre, tra caldo e zanzare grosse come aeroplani, rimanendo radicati sul fondo del terreno umido come fossero quaccheri attaccati alla loro Bibbia. Perché per suonare questa musica bisogna essere pieni di fede, devoti fino al midollo, andandoci giù pesante sui pochi accordi, sempre quelli, maledetti e distorti.

 

I due Black Keys, Auerbach alla chitarra e Carney alla batteria, si fanno aiutare, in questo Delta Kream da musicisti che più fidati non si può, perché già noti collaboratori dei succitati Kimbrough e Burnside, cioè Kenny Brown alla chitarra ed Eric Deaton al basso elettrico, con un paio di interventi all’organo di Ray Jacildo. I Black Keys sono dunque in giro da vent’anni, hanno pubblicato nove dischi prima di Delta Kream e hanno sempre manifestato il loro amore per questa musica, anche se è pur vero che non tutti i loro lavori si siano consacrati interamente al blues. Il disco è stato registrato a Nashville in una seduta di una decina di ore, quindi quasi di getto come facevano i jazzisti della Blue Note a casa di Rudy Van Gelder, con passione e improvvisazione. Il blues è sempre quello che tutti conosciamo, ma in questo contesto viene reso ancor più monotematico, le armonie si snodano quasi sempre su uno o due accordi, la musica sonda il fondo dello stomaco con due chitarre sempre più selvatiche e laceranti, a raccontare il mondo essenziale e distopico che corre lungo le rive del grande fiume americano.

 

The Black Keys - Delta Kream

 

Scorrendo la scaletta dei brani si comincia con Crawling Kingsnake di John Lee Hooker. Un breve accenno d’intesa, parte subito il riff e siamo già immersi fino al collo nel cerchio magico della musica. Il brano si snoda lento e serpentino, le chitarre duettano ben compresse sviluppando un’energia che fatica a restare controllata. Niente a che vedere con la versione dei Doors su L.A. Woman, a mio parere non bella come questa. Louise è un altro “standard blues” di Fred McDowell, reso in modo più “educato” rispetto all’originale, purificato da quelle naturali derive vocali e asprezze sonore che si ascoltano spesso, come caratteristica essenziale, nell’esibizione dei tradizionali bluesman neri. Il tutto appare quindi più levigato, anche se non troppo, e nobilitato dalla slide di Brown, che verso il finale s’incrocia con lo strumento di Auerbach, incrementando la scabrosità complessiva del brano. Poor boy a long way from home recupera, con un po’ di retorica, il sentimento della lontananza da casa, probabilmente più avvertito dall’autore R. Lee Burnside durante la sua migrazione dal Mississippi verso Chicago. Certo un tipetto strano, questo Burnside. Nel 1959 uccise un uomo durante una partita a dadi e le cronache del tempo, ovviamente da valutare con le molle, riferiscono le sue parole davanti ai giudici: “Non volevo uccidere nessuno… volevo solo sparare alla testa di quell’uomo. Il fatto che sia morto è affare tra lui e il Signore…”. Ok, that’s blues, si potrebbe dire. Comunque, grande slide di Brown…

Stay all night è brano di Kimbrough e, visto che prima ho citato i Doors, qui siamo a mezza strada proprio tra loro e i Rolling Stones nei loro momenti più blues di Exile on Main Street. Una traccia torbida quanto basta, facilmente orecchiabile, insomma con tutte le carte a posto per piacere. Le chitarre moderano le loro distorsioni, puntando a quelle più naturali in uscita dagli ampli saturati, piuttosto che da quelle comandate dall’apposito effetto- pedale. Going down south è di Burnside e qui viene cantata in falsetto da Auerbach. Il tono della voce, l’andamento un po’ ossessivo del brano mi ricordano i Canned Heat, gruppo leggendario tra i ’60 e i ’70 che di blues ne avevano veramente masticato parecchio. Compare l’organo di Jacildo che trova una giusta dimensione riempitiva tra il nervoso dialogare delle chitarre. Coal Black Mattie è firmata dal bluesman Ranie Burnette e in questo contesto appare molto indurita dalle chitarre asprigne che ronzano ossessivamente attorno al cantato.

Torniamo a Kimbrough, autore di Do the romp, che nello slang americano sta più o meno per “spassiamocela”. Non so se i personaggi del testo si divertano o no ma è certo che il brano eccita chi ascolta: finalmente un blues in dodici regolari battute, verrebbe da dire. Ancora di Kimbrough è la traccia seguente, Sad days, Lonely nights. Anche qui si tocca un luogo comune, quello dei consigli dei genitori – “quand’ero giovane mio padre e mia madre mi dicevano…” – e qui partono suggerimenti di grande saggezza, tutti invariabilmente disattesi, tranne quando è il momento di raccontarli, appunto, in un pentimento sotto forma di blues. Sempre di Kimbrough è Walk with me. Comincia ad affiorare un po’ di naturale stanchezza all’ascolto, data l’omogeneità dei brani, mentre la carica aggressiva comincia a stemperarsi in una serie di loop, forse un tantino troppo simili, nonostante gli assoli sempre ispirati dei chitarristi. È la volta ora di Joseph Lee Williams con Mellow peaches, le allusioni sessuali nel blues sono variopinte e diversificate... Anche in questo caso il tema si avvale di una robusta tematica ripetitiva dove il sound chitarristico s’incarognisce attorno ai soliti, corposi e carnosi accordi, ma il piacere, diciamoci la verità, sta in gran parte in questa intensa visceralità. Si chiude in bellezza con Come on and go with me, un blues lento che sarebbe stato bene tra le braccia degli Zeppelin prima maniera ma che, comunque, ci parla ugualmente attraverso la bella sonorità dell’organo e con le chitarre che si lasciano andare roteando attorno al canto, innescando un ipnotico circolo chiuso in cui è bello restare prigionieri.

 

Nessuna novità, quindi, sotto il sole. Il blues, lo sappiamo, è sempre nuovo nel suo essere vecchio, non rinasce né muore mai, ma cambia spesso, muta come un serpente. Da segnalare, inoltre, la bella foto di copertina di William Egglestone, che mostra un’automobile davanti a un ristoro il cui nome è servito per intitolare questo album. Un’apparizione in mezzo al nulla, una come le tante che si ritrovano lungo le decentrate strade blu negli USA. Un’immagine simbolica scavata all’osso così com’è, alfine, la musica di questo disco.

 

The Black Keys

Delta Kream

CD e vinile None Such Records 2021
Reperibile in streaming su Tidal Hi-Res MQA e Qobuz 16bit/48kHz

di Riccardo
Talamazzi
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