Succede una cosa curiosa con i Dream Syndacate. Non mi sono mai piaciuti molto, fin dagli inizi, quando tutti – ma proprio tutti – erano pronti a giurare sulle loro intrinseche qualità compositive. Ne avevo ricevuto un’impressione diversa, invece. Mi sembravano una band di coraggiosi dilettanti, rumoristi più per incapacità che per intenzione. Comunque, dovevano avere, lassù, un bizzarro protector deus che inventò per loro una specie di movimento musical-culturale, il Paisley Underground, una sorta di psichedelia degli anni ’80, con richiami a uno strano ibrido newyorkese-californiano in cui i Velvet Underground facevano le veci dei classici convitati di pietra. Poi qualcosa cambiò, il loro nume tutelare si stancò di seguirli e nel 1994 – il loro esordio è targato 1982 con The Days of Wine and Roses – dopo una coda di dischi live e recuperi di vecchie registrazioni finite in fondo ai cassetti, i Dream Syndacate mollarono la presa. Ma dopo più di vent’anni ritornarono con How Did I Find Myself Here? ed eravamo nel 2017…
Ora ricompaiono dopo un paio d’anni dal penultimo The Universe Inside con il loro più recente lavoro enigmaticamente intitolato Ultraviolet Battle Hymns and True Confessions. Dato che la musica rock invecchia insieme ai suoi protagonisti, sia chi suona e chi ascolta, con l’avanzare dell’età si è realizzato, per quel che mi riguarda, un insperato punto d’incontro. Non che il Sindacato abbia completamente modificato il proprio genere ma è diventato certamente più malleabile, maggiormente attento agli schemi compositivi, orientandosi verso ballate elettriche dai toni pur sempre velvettiani, arricchendosi di sporadici effetti elettronici e ammorbidendo di gran lunga il loro wall of suond di suoni distorti.
Per gli adoratori del rock sporco e rumoroso uno spiacevole passo indietro, per gli anziani afiocionados dei ’60 e’70, guarda un po’ come vanno le cose, un netto miglioramento qualitativo. Comunque sia, va sottolineato un importante dato di fatto. Questa band ha sempre avuto l’elettricità nel sangue, il demone del rumore si è costantemente aggirato tra i volumi degli ampli, anche se questa volta viene tenuto a bada con un po’ di più di strategia. Lo sciamano Steve Wynn ha imparato le giuste formule magiche ma la tentazione è sempre lì, il dionisismo lo si percepisce ancora bene e forse è proprio questa caratteristica di coerenza che chiarisce, alfine, l’essenza di questo gruppo.
La formazione attuale vede, oltre al già citato Wynn alla chitarra e alla voce principale, Dennis Duck alla batteria, Mark Walton al basso elettrico, Jason Victor alla chitarra e Chris Cacavas alle tastiere, ex Green On Red e probabilmente il musicista più tecnico tra i cinque. Affiancano questa formazione l’altra chitarra di Stephen Mc Carty e i fiati di Marcus Tenney. La musica di Ultraviolet è… una miscela in costante ebollizione ma non più sfacciatamente perentoria come negli anni passati. Nessuna torrenzialità ma al suo posto un sudaticcio trafficare coi rumori di fondo, un rimestio di chitarre, arpeggi e melodie affidate al canto e a qualche incandescente fraseggio sonoro.
Pronti e via. Where I’ll Stand è proprio un bell’inizio, con un synth che disegna un anello simile a quello che compare in Baba O’Riley degli Who. Poi arriva l’impatto, potente e melodico, con il solito metronomico Duck che ne scandisce la marcia. Mentre una chitarra resta costantemente in distorsione sul fondo e un’altra cerca di alleggerire con un arpeggio il magma vulcanico che si sprigiona, un’incisione ulteriore di chitarra viaggia in un assolo paradigmatico, tra cori ripetuti e convincenti giri armonici. Acidità e intelligenza melodica sono quindi le armi vincenti di questo primo brano.
Damian si orienta verso un pop-rock orecchiabile, con le chitarre sempre accese e la comparsa di qualche nota di sax per opera dell’aggiunto Marcus Tenney. Bella la sequenza chitarristica finale, non banale, a spegnersi in lontananza.
Beyond Control s’infiamma a poco a poco, con il synth che è un fritto misto tra xilofono e campane tubolari. Wynn canta una ballata di struttura semplice ma ben sostenuta da una strenua base ritmica e da chitarre che s’incrociano, spesso arpeggiando, con molto riverbero. Si sprigiona una musica dal fascino mesmerico, velatamente cupa e ossessiva.
The Chronicles Of You ha un andamento che rimanda anche vocalmente, alla figura di Bowie, con un tono simile alle ballate berlinesi del Duca Bianco o alle strascicate visioni urbane di Lou Reed. Il brano è teso, posseduto dalle chitarre che se lo manipolano in lungo e in largo con la tromba di Tenney ad alimentare il fondale sonoro. Un certo sapore retrò ma non troppo alimenta la struttura compositiva, fornendovi un contrasto chiaroscurale che tuttavia non degenera mai nel buio assoluto.
In Hard To Say Goodbye il plagio vocale verso Lou Reed è lampante, la ballata ci rimanda ai periodi reediani del dopo-Velvet-Underground. Un certo languore febbricitante ne costituisce l’anima, s’intravede del blues in tralice, tromba e slide guitar si alternano sotto le righe. L’atmosfera è indecisa tra un paesaggio urbano e una semidesertica e rocciosa quinta westcoastiana.
Everytime You Come Around sposta l’asse musicale dagli USA alla vecchia Europa andando a risvegliare vecchi fantasmi alla Verve o alla Jesus and Mary Chain. Nostalgia dello shoegaze? In fondo sempre di rumore melodico si tratta… Comunque, il brano funzione bene e fa venir voglia di riascoltarlo in loop.
Trying To Get Over compie addirittura un bel balzo all’indietro, back to the sixties, verrebbe da dire e si finisce in un “beat” dominato da chitarre distorte e primitive.
Si resta nello stesso mood con Lesson Number One. Siamo sempre nell’ambito della piacevolezza d’ascolto, ci tengo a sottolineare, con una sovraincisione di fiati che si sovrappone a tratti alla costante trama distorsiva delle chitarre, ma è curioso che un gruppo come Dream Syndacate vada così spesso a ritroso nel tempo in questo disco.
Si torna verso climi più contemporanei, quasi a metà tra Nick Cave e Tom Waits con un saluto tutt’altro che veloce a Howe Gelb, per una spettacolosa ballata come My Lazy Mind, roba da playlist immediata. Accordi tremolanti di chitarra, una tastiera che dà spessore e un sax che bluesizza sono l’accreditato lasciapassare verso la profondità. Una ritmica finalmente più leggera trasporta questo brano vicino a lidi che appaiono più congeniali che non i due brani precedenti.
Ma il richiamo del beat dev’essere più forte di quanto non si possa prevedere, visto che Straight Lines chiude la faccenda riportando tutto verso un’epoca passata, ma non verso le origini dei Dream Syndacate. Qui andiamo, infatti, a parare molto indietro, arriviamo al garage rock della Chocolate Watchband con un pizzico di follia in più – ma neanche tanto – e quindi divertimento e teste che si scuotono facendo oscillare i caschetti di capelli, per intenderci.
I Dream Syndacate non sono uno di quei gruppi che balla una sola estate. Sono sempre vivi e vitali ma talora si ha l’impressione che cerchino di parodiare un po’ sé stessi, infilandosi in quei tunnel nostalgici che in fondo li hanno generati. E in effetti il Paisley Underground era quel cordone ombelicale che ha riportato, come in un regressus ad uterum, la musica degli anni ’80 indietro di vent’anni per fuggire le stucchevolezze di quei tempi, tutte o quasi disco music e glam.
The Dream Syndicate
Ultraviolet Battle Hymns and True Confessions
CD e vinile, anche colorato, Fire Records 2022
Reperibile in streaming su Qobuz 16bit/44kHz e Tidal 16bit/44kHz