Suona molto pulito il chitarrista israeliano-americano Tomer Cohen, tanto che non si resta sorpresi quando egli stesso riferisce tra i suoi numi tutelari due musicisti influenti come Bill Frisell e Pat Metheny. Però in questo caso l'utilizzo di un suono molto puro alieno da effettismi – niente sustain o distorsioni ma utilizzando un colore morbido e non aggressivo – colloca lo spirito di Cohen in quel gruppo di jazzisti ad alta componente eufonica che non si arrovellano nella ricerca di una timbrica strumentale particolarmente originale ma badano maggiormente al carattere armonico complessivo della loro musica. Utilizzando una tecnica mista che contemporaneamente impiega plettro e dita libere nell'accarezzare le corde del suo strumento, Cohen è in cerca del proprio Graal rifacendosi alla saggezza greco-antica, ripescando l'aristocratico e speculativo Eraclito, il filosofo del divenire e del pòlemos, alludendo alla nota metafora del panta rei os potamòs, tutto scorre, cioè, come l'acqua di un fiume.
Questo Not the Same River, disco d'esordio, suona quindi come una dichiarazione d'intenti di un musicista disposto ad accettare serenamente i cambi d'ispirazione e le trasformazioni che avverranno, in futuro, lungo il suo percorso di crescita e maturazione. Ma Cohen, quasi a contraddire i suggerimenti del titolo a cui questo disco allude, propone comunque un lavoro piuttosto stabile, con frequenti risacche meditative sorrette da un'ottima accoppiata contrabbasso-batteria. Le scosse prodotte dalla ritmica impediscono altresì il rischio di un certo “affaticamento timbrico” dovuto all'uso costante della sonorità chitarristica prediletta dall'autore. Al di là delle canoniche influenze accennate inizialmente, con i dovuti distinguo, personalmente riesco a trovare nella musica di Cohen impressioni di Pat Martino, ad esempio, o di Kurt Rosenwinkel, oltre a dei riferimenti che esulano dal jazz propriamente detto per rifarsi a un certo rock improvvisato stile Grateful Dead, molto cerebrale e utilizzando quest’ultimo termine con tutti i benefici del dubbio possibili... Lo stile di Cohen non è infatti ricercatamente impostato sulla velocità e sui tecnicismi quanto sul “respiro” che le sue note ricercano attorno a loro stesse, altalenandosi tra luminescenti schiarite e improvvisi, stagnanti adombramenti. Nei dintorni di una velata malinconia, mai pienamente espressa ma solo accennata, gli arpeggi e i cromatismi della chitarra mantengono un atteggiamento compìto, mostrando poca esuberanza ma molta ponderazione.
La biografia di Cohen – cfr. con All About Jazz del dicembre 2022 – racconta di un musicista nato a New York ventisette anni fa che però già da bambino ha vissuto in Israele, frequentando gli studi musicali a Tel Aviv per ritornare da adulto a perfezionarsi poi negli U.S.A. Per questo esordio è stata scelta la formazione triadica, con il contrabbassista neozelandese ma residente a New York Matt Penman e il batterista Obed Calvaire, dai trascorsi con Wynton Marsalis e Dave Holland.
L'album si apre con la title-track Not the Same River e qui i riferimenti Frisell-Metheny tornano alla memoria nemmeno troppo trasfigurati. Il brano è molto bello, melodico, ricco di fuggevoli annotazioni meditative che lo spingono quasi verso un versante pop, ma dalla briglia sciolta, pur essendo senza improvvisazione, dimostrando una certa semplicità e linearità di scrittura.
Connecting Dots si presenta con un'intro di tamburi che sembra inizialmente senza preciso costrutto ma che ben presto funge da pista di lancio per il decollo della melodia chitarristica, tutta arpeggi e motivi reiteranti. Sono proprio queste notazioni quasi circolari e ripetitive che mi fanno ripensare a certe radici rock, ammesse anche dallo stesso Cohen. Ma, contrariamente a queste influenze, la componente ritmica lavora su tempi composti piuttosto serrati e inoltre l'improvvisazione non manca, soprattutto dal minuto tre e trenta, per cui il suggello jazz è decisamente ben guadagnato. Finale quasi ossessivo, con un riff che ritorna su sé stesso, riprendendo il tema iniziale.
Hithadshut (Regeneration) è forse uno dei brani più introvertiti dell'intera raccolta. La chitarra scansiona le sue note misurando le pause con i silenzi altrettanto espliciti del contrabbasso a costruire una linea melodica piuttosto cupa, utilizzando note lunghe ed arpeggi in accompagnamento. La tendenza alla Garcia di allungarsi modalmente nello spazio circostante fa di questo brano una quasi traccia psichedelica in cui Cohen ama abbandonarsi utilizzando con misura l'arte dell'improvvisazione e dando più l'impressione di lavorare su poche note al di là di quelle scritte. Indubbiamente la musica scava interiormente, concedendosi qualche cosmica, stupita riflessione giusto quelle volte in cui lo sguardo tende ad alzarsi verso le stelle.
Empty? abbandona in parte le atmosfere precedenti puntando maggiormente sulla ricerca di moderate dissonanze, colloquiando intimamente con il contrabbasso e l'ottima batteria di Calvaire, vera e propria ossatura scheletrica dell'intero impianto musicale. Per un lungo momento, dal minuto uno e venti, Cohen resta da solo, ripreso progressivamente poi dal contrabbasso e dalla batteria. Forse questo è il brano dove si ascolta una maggior tenuta nell'improvvisazione. Note meditate, scelte con attenzione, qualche scala in velocità ma si avverte come non sia quest'ultima la qualità ricercata da Cohen, consapevole della propria visione interiore e del tentativo di raccontarla attraverso la voce moderata e vulnerabile della sua morbida timbrica strumentale.
Ora è la volta di Pastures e in questo caso raccogliamo la dichiarazione che ne fa direttamente lo stesso autore a DL Media Music – che trovate qui – il 16 febbraio di quest’anno. Queste le sue parole: “... fondamentalmente sto dicendo all'ascoltatore di chiudere gli occhi e d'immaginare di essere seduto su un'alta collina e vedere i campi verdi con il vento che li muove come onde del mare...”. In effetti la volontà descrittiva di Cohen si protrae per quasi una decina di minuti nel tentativo di dipingere una scena campestre di matrice bucolica. Il progetto riesce solo in parte, forse per eccesso didascalico o per fisiologiche discontinuità tra gli assoli – il contrabbasso, pur ben suonato, sembra piovere dal cielo – ma tant'è che una certa sensazione di malessere spunta perniciosamente all'orizzonte, dato che l'improvvisazione che ne risulta sembra frammentarsi eccessivamente in qualche reiterazione di troppo.
Sunrise pare la continuazione del brano precedente ma qui l'incedere melodico e il sostegno ritmico ne danno una lettura inizialmente più sciolta ed efficace, anche se tutto ciò non è così durevole come sembra. Ad un certo punto, più o meno dal terzo minuto in poi, la chitarra viene lasciata sola, libera di distendersi verso territori completamente improvvisati, almeno fino a quando ricompare delicatamente la ritmica a riprendersi la compagnia dello strumento solista. Da questo punto parte uno tra i migliori momenti musicali forse di tutto l'album. L'incalzare progressivo di contrabbasso e batteria, uniti alle espressive ridondanze cicliche degli arpeggi di Cohen, evocano un senso d'integrità e di completezza tra vibrazione fisica e pura riflessione mentale.
Probably More Than Two si distacca almeno inizialmente dai brani precedenti con un serrato 5/4 e una lettura jazz sullo stile di Metheny, frutto di un colloquio quasi sussurrato tra chitarra e ritmica, soprattutto ad opera del contrabbasso, che si libera in un assolo smanioso di raccontarsi con più libertà e meno self-control. Successivamente torna l'improvvisazione della chitarra, incalzata da uno strenuo, continuo richiamo di piatti e tamburi che aumenta di velocità fino al brusco termine dello stesso brano. La traccia di chiusura, liricamente molto ben segnata dal rotondo assolo di contrabbasso, è forse l'unica che rimanda, con l'escursione di Penman, a un sentore melodico popolare israelita che comunque resta decisamente in secondo piano lungo tutto l'arco dell'album, nonostante abbia letto dei tentativi di fornire a questo lavoro una paternità folk mediorientale per la verità poco percepibile se non con qualche atteggiamento forzato di ricerca.
Con la pazienza di un artigiano, Cohen incolla le parti del suo lavoro rifuggendo gli assetti più esibizionistici e rinunciando a quei comuni cliché tipici del chitarrista mainstream. Riscontriamo però un veniale pizzico di autoindulgenza nei suoi assoli, spesso ripresi e rilanciati qualche volta di troppo all'interno dello sviluppo dei brani. Da questo punto di vista un gran lavoro viene svolto dai suoi sodali per ciò che riguarda la parte ritmica, riempiendo tutti i vuoti quando compaiono e non permettendo mai che cali troppo la tensione, dato il costante atteggiamento raccolto e meditativo da parte dell'autore.
Tomer Cohen
Not the Same River
CD Hypnote Records 2023
Reperibile in streaming su Tidal 16bit/44kHz e Spotify MP3 320 kbps