U.T. Gandhi | Diario di un autodidatta

ReMusic Record
28.07.2015
U.T. Gandhi | Diario di un autodidatta
U.T. Gandhi | Diario di un autodidatta

La citazione di anonimo “Quando sei diventato maestro in una cosa, diventa subito allievo di un’altra”, associata alla potenza evocativa del nome U.T. Gandhi, farebbe immaginare di essere al cospetto di contenuti magistrali, filosofici, ascetici o religiosi. Più semplicemente, senza che questo comporti un ridimensionamento del significato umano e spirituale, è la luminosa introduzione al Diario di un Autodidatta, opera letteraria firmata da Matteo Bellotto, che racconta e condensa splendidamente il pensiero di Umberto Trombetta, da San Daniele del Friuli, alias U.T. Gandhi, a mio modesto parere, uno dei più grandi batteristi/percussionisti, anzi dominatori di batterie e percussioni, che mi sia capitato di ascoltare.

 

Al di là del titolo, il libro non può essere considerato una classica autobiografia, pur essendo profondamente autobiografico. Sarei più orientato a definirlo un’autobiografia musicale. Le citazioni dei familiari e dei cari sono appena accennate e strumentali: il padre, soprannominato Gandhi per la sua magrezza, è importante per la collezione di dischi che aveva in casa e per aver regalato al figliolo una batteria Hollywood Jolly Meazzi; la madre che, per calmarlo durante le frequenti crisi di pianto da neonato, gli mette nella culla una radiolina, instillandogli inconsapevolmente il virus della musica; uno zio che gli acquista la prima batteria, lo porta alla discoteca Il Lago, a Cavazzo, e convince i Maya, il gruppo di turno, ad ospitare il ragazzino per suonare Satisfaction. Da lì la folgorazione per il tiro percussivo del Sandrino, che gli fa esplodere il desiderio di voler diventare bravo allo stesso modo. Oltre la sfera familiare, entra nella narrazione una lunga sequela di personaggi locali che sanciscono le tappe della formazione musicale di Umberto, che inizia a maturare suonando alle feste di paese, nelle chiese, o in piccole orchestre.

L’inizio ha tutti i requisiti di una storia di provincia. Ricorda vagamente quegli splendidi sceneggiati di Pupi Avati, come dimenticare Jazz Band e Dancing Paradise, ambientati nella provincia emiliano/romagnola, intrisi di umanità, poesia e passione per la musica e il ritmo. La musica sopra ogni cosa, compresa la scuola, dove i risultati sono pessimi. Ma assomiglia anche alla storia giovanile di molti di noi, alle prese con i nostri sogni di musicisti in erba che volevano diventare come i Beatles o i Rolling Stones. Per la cronaca non mi risulta, ahimè, che qualcuno ci sia riuscito. Lo stile narrativo non è letterario in senso stretto, tanto meno romanzato o prosastico. Ha la forma di un diario scandito dall’autore, alternato con gli aneddoti e le riflessioni, sempre virgolettati, di U.T., quasi a voler dare anche al linguaggio un ritmo, anzi diversi ritmi, da un semplice binario a base di ottavi, fino a un pattern swing, proprio come una batteria. Non so se questa soluzione sia voluta o accidentale. Se un giorno avrò il piacere di conoscere Gandhi glielo chiederò. Di sicuro rende questo testo estremamente accattivante e coinvolgente, al punto di farsi leggere tutto d’un fiato.

 

Al termine del capitolo giovanile si collocano i primi bagliori del Gandhi pensiero, minuscoli tasselli da assemblare per comprenderne la personalità. “Quando io suono entro in una sfera e lì faccio quello che voglio. Negli anni mi è capitato di esibirmi davanti a molte persone ed anche di esibirmi in piccoli locali davanti a pochi. Le sensazioni e l’entusiasmo per suonare non sono mai cambiati. Quando suono io penso soltanto alla musica, qualsiasi essa sia e chiunque sia ad eseguirla. Essendomi abituato a suonare sopra i dischi, ho imparato l’importanza fondamentale dell’ascolto, rispetto all’esecuzione”. Anche Bellotto dispensa tratti di meditazione su argomenti affini. L’amaro ragionamento sul fatto che, al fronte del fermento dei giovani nel voler ricercare dischi e scoprire nuove forme di musica, si oppone una terra che ha la tendenza a emarginare la cultura come “non priorità”. La burocrazia e la diffidenza fanno fatica a riconoscere quello del musicista come un lavoro vero e proprio. Il lavoro tradizionale è l’unica forma di aggregazione sociale. La società friulana stenta a riconoscere una dignità agli artisti conterranei.

Comunque Umberto segue imperterrito la sua vocazione.

Il 18 Aprile 1976 vede dal vivo a Udine Ginger Backer e completa il poker dei suoi idoli del tempo: John Bonham dei Led Zeppelin, Jan Paice dei Deep Purple e gli Area. A questo punto, nel pieno delle esperienze scapigliate, alle ore 2100 del 6 Maggio 1976, il terremoto devasta la regione, il suo popolo e le rispettive speranze, lasciando una cicatrice indelebile nei sopravvissuti, uno spartitempo, before and after, l’anno zero. Gandhi racconta che il terremoto distrusse tutto, tranne la sua batteria, perché una trave cadde tra i due tom e la protesse dal crollo. Un esplicito segno del destino. Le iniziative a sostegno delle popolazioni disastrate si moltiplicarono e, tra queste, un concerto degli Area a Osoppo, che porta altro impulso agli aneliti di Umberto e lo avvicina al blues e al jazz-rock. Il fenomeno delle radio libere e l’ascolto di Take 5 di Dave Brubeck lo dirigono verso il jazz e alla nascita della Octopus Band, in una condizione di crescenti difficoltà di esibirsi dal vivo. La curiosità permanente lo porta a conoscere, complice il chitarrista Daniele Maschio, Heavy Weather dei Weather Report. Il nostro rivela che “…da lì è partito un viaggio che dura tutt’ora. Non avevo mai sentito nulla del genere e mi sento di dire che se non avessi scoperto quella band forse non avrei continuato a suonare. Forse avrei mollato, è stata una scintilla, un fulmine a ciel sereno”.

Non solo l’avvenimento rimette in moto l’entusiasmo, ma amplia gli orizzonti della conoscenza musicale, ecco allora Jarrett, Metheny, Oregon, Abercrombie e l’etichetta ECM fornendo enormi stimoli al progresso individuale di musicista. Di questi anni è il cimento con le tastiere, per colmare l’esigenza di comporre musica propria, pur non conoscendo lo spartito.

La fine degli anni ’70 è un periodo di transizione durante il quale tutti i musicisti della zona passano molto tempo a provare per migliorarsi, molto meno riescono a esibirsi. Frequentando la scuola a Udine, Umberto entra nel giro dei musicisti udinesi, Dal Sacco, Valli, Zaninotto, D’Agaro, fondando gli Electric Jazz, poi Birdland. Il concerto dei Weather Report, sempre a Udine, nel 1981, è un altro sussulto per il giovane, che lo scuote nel profondo e lo induce per l’ennesima volta a riflettere. “Quella notte, dopo il concerto, mi sentii per la prima volta nella vita, inutile, insignificante, come giovane apprendista musicista, pensando alla musica e ai musicisti che avevo potuto vedere e ascoltare. Non riuscivo a dormire e mi chiedevo: non riuscirò mai a suonare in quel modo, così bene. Credo che sia stata una grande opportunità e un grande stimolo per tutti noi poter ascoltare quella formazione dei W.R., con Pastorius, Erskine, Thomas, Shorter e Zawinul, ci hanno aperto gli occhi e le orecchie e credo che anche questa sia stata una grande lezione di vita sul non accontentarsi, ma essere sempre curiosi ed esigenti nel rispetto della musica e di noi stessi”.

L’attività si intensifica con l’aggiunta dell’organizzazione di concerti, i cui proventi vengono investiti nell’acquisto di impianti audio e luci, mentre il progetto si allarga verso il teatro, e culmina con l’ingresso nella Toni Cuberli Orchestra.

Il 1985 e il 1986 rappresentano gli anni della prima svolta, perché U.T. si reca a Umbria Jazz e partecipa ai seminari di Jimmy Cobb, il batterista di Kind of Blue di Miles Davis. Qui, al di là della tecnica, matura la consapevolezza di ciò che significa essere un musicista. “La cosa che mi colpì di più di Jimmy Cobb fu la sua estrema umiltà. Certo aveva una tecnica sopraffina, ma la cosa principale rimaneva il suo essere umano e molto disponibile con noi, che eravamo dei ragazzini. Ho imparato molto da lui, continuava a ripeterci che dovevamo suonare molto, studiare e fare esperienza. Mi ha trasmesso la voglia di mettermi in discussione, l’attitudine a imparare e ad ascoltare”. Questo aneddoto vuole ricordarci dell’importanza dell’umiltà, della costanza e della consapevolezza di fare parte della musica e diventarne tramite. Il musicista è il filtro della musica, il suo strumento. Ha una funzione alta e nobile. Tanta più musica si ascolta e si metabolizza, tanto più si può trasmettere agli altri che ascoltano. La pratica dell’ascoltare predispone al dialogo e insegna a cogliere i significati anche nelle pause e nei silenzi. Il talento non deve essere sopravvalutato, ma si sviluppa con il lavoro, la costanza e l’umiltà di non aver mai raggiunto il punto di arrivo. Ancora Gandhi: “Io non ho mai alcun tipo di pregiudizio nei confronti di un musicista. Credo, negli anni, di essermi sempre messo in discussione e di aver imparato ad ascoltare gli altri. Di solito sono molto onesto con le persone. Se un musicista mi piace suono volentieri con lui, altrimenti faccio a meno. Questa non è superbia ma rispetto. Se io mi sento felice quando suono e riesco a trasmetterlo allora significa che sto facendo bene il mio lavoro, è l’espressione della vita che uno ha”.

 

L’orgoglio di sentirsi musicista, senza mai dimenticare l’appartenenza a un humus geografico/culturale più aspro rispetto, ad esempio, a quello romano, dove i talenti crescenti avevano infinite possibilità di confrontarsi e imparare dai tanti artisti, anche stranieri, che facevano tappa in capitale, unito a una serie di incisivi cambiamenti personali e professionali, inducono Umberto, nel 1990, a lasciare il lavoro nel bar e dedicarsi completamente alla sua passione. “Mi ero stancato di lavorare in bar. Non ce la facevo più. Così decisi. Lasciai il lavoro e ripartii da zero. Ebbi la fortuna, per così dire, di entrare in crisi. Riconsiderai il mio modo di suonare, attraverso lo studio di alcune cose essenziali, come il beat del piatto, studiando davanti allo specchio per curare i particolari. Il cambiamento della mia vita è stato positivo perché mi ha avvicinato sempre più alla consapevolezza di voler proseguire il mio cammino verso la musica. Io non credo di avere talento, ma ho un enorme rispetto per la musica. Io ho sempre dato il cento per cento, perché per me la musica è vita totale e per fare questo lavoro credo sia fondamentale provare rispetto per la musica, per i musicisti e per tutti i colleghi. C’è sempre da imparare da tutti. Io credo che il talento, oltre alla tecnica che si presume ci sia, sta forse nell’intuizione di chi suona. Chi ha talento fa cose che altri non fanno. Nel jazz c’è molta improvvisazione, apparentemente non logica e chi ha talento va oltre perché non ha limiti. Credo che tutti abbiano qualcosa dentro che li fa muovere, ma fino a quando non si cerca e si lavora su se stessi non si trova nulla. La musica è tra le massime espressioni culturali e c’è chi ha bisogno di essa. La musica è come un viaggio, entra ed esce in maniera diversa. Noi la filtriamo, teniamo dentro quello che ci interessa o ci colpisce e poi lo buttiamo fuori prima o poi”.

Coerente con quanto asserito in queste espressioni, U.T. non lesina tributi a tutti i musicisti fondamentali per la sua crescita e afferma di essere stato fortunato a suonare con Zaninotto, D’Agaro, Cojaniz, Costantini, Pacorig, Biason, Tedesco, De Mattia, Maschio e tanti altri, ma riserva un ruolo privilegiato al contrabbassista Giovanni Maier. “Con lui ho avuto da subito molto feeling e interplay. Credo di aver imparato, suonandoci insieme, cosa voglia dire suonare in acustico, usare le dinamiche, i tempi e i colori musicali giusti al momento giusto con la complicità del contrabbasso. La sezione ritmica è la spina dorsale, quella che regge tutto, che può creare, distruggere, dare diversi input e diverse direzioni, ma quando tutto funziona al meglio, si crea un mood magico e particolare”.

Viene così approfondito il tema dello scambio di ispirazioni e conoscenze, fondamentale per poter distruggere il sentimento dell’invidia, che annichilisce l’amore per la musica. “Chi prova invidia, non ama la musica e non ama nemmeno se stesso. Chi è egoista non farà mai nulla, ma in assoluto, non solo nel campo della musica. Io sono uno dei pochi che non appena può va sempre a vedere i concerti di amici e colleghi. Oltre che ascoltare buona o cattiva musica, si dà un supporto fisico e morale ai musicisti e spesso c’è anche molto da imparare guardando altri suonare. Torniamo al discorso sull’umiltà, senza la quale non si fa nulla. Io credo si debba essere sempre convinti di ciò che si fa, perché non tutti lo possono fare, essere sempre predisposti ad imparare e ascoltare. Cerco sempre di essere molto onesto quando vado ai concerti. Se c’è qualcosa che mi piace, lo dico e lo dico chiaramente anche se non mi piace e mi aspetto sempre che gli altri si comportino così con me”.

Queste massime sono emblematiche e i tratti intellettuali, l’integrità, l’animo e lo spessore di Umberto cominciano a essere ben chiari.

Ormai la direzione è irreversibile. La platea di esperienze e collaborazioni si amplia. Prima in trio con Daniele D’Agaro e Jaco Shonderwoerd, altro trio con Maier, poi con i musicisti torinesi Claudio Lodati, Ellen Christi e Alex Rolle. Registra il primo disco con l’Hasta Siempre Trio. Suona con Massimo Urbani, Luis Sclavis, Antonello Salis. Nel 1989 conosce Enrico Rava, aprendone un concerto con i Birdland Jazz Group. Gandhi e Maier decidono di invitarlo a suonare con loro in Friuli, nel momento in cui il maestro voleva sperimentare nuove sonorità con l’innesto della chitarra elettrica. Quando sembrava che tutto l’impegno profuso, soprattutto economico, non potesse dare frutti, arriva la chiamata di Rava a fare parte del suo nuovo gruppo, Rava Electric Band, poi Rava Electric Five, con, all’attivo, cinque dischi e turnè in tutto il mondo fino al 2001. Afferma Umberto: “Rava è un poeta della tromba, uno dei pochi che ha da dire qualcosa con il suo strumento. Le sue composizioni sono molto melodiche e nuove”.

Questa è l’opportunità più grossa che sia capitata a Gandhi e gli regala visibilità, contatti con altri musicisti e continue occasioni di lavoro. Il gruppo era formato da cinque solisti, pienamente liberi e creativi. La consacrazione non cambia la persona, che rimane ancorato ai suoi principi: “I complimenti fanno sempre piacere, ma non devono essere una regola. La musica è una cosa seria, per me lo è. Rispettandola molto non riuscirei mai a pensare di essere il migliore, perché in musica il migliore non esiste”.

Ormai possiamo parlare di Gandhismo. L’elaborazione del pensiero va di pari passo con l’evoluzione del musicista: è tempo di cimentarsi come leader e la figura che gli offre tutti i riferimenti necessari è Joe Zawinul, con il quale U.T. stabilisce un grande rapporto di amicizia. “Per me lui era il massimo, un leader molto forte, carismatico e un grande maestro di sensibilità musicale. Ho sempre cercato di mettere nella musica quello che ci metteva lui, la forza espressiva. Dal punto di vista compositivo mi ha aperto la mente, perché significava non essere più solo un batterista che suona jazz o qualsiasi altro genere, significava poter comporre la mia musica e da lì a qualche anno ho cominciato a scrivere dei pezzi, anzi a suonarli, perché dovevo poi chiedere a qualcuno di scriverli, perché io non lo so fare in quanto autodidatta”.

I progetti compositivi iniziano con colonne sonore per teatro e danza, fino alla produzione di un album solista nel 1997. I cambiamenti di rotta, permettono di scongiurare la routine e guardare sempre avanti, senza fossilizzazione o autoreferenze. Con queste basi solidissime Gandhi si proietta negli anni 2000, quelli della consacrazione e della consapevolezza di essere, finalmente, un artista, costantemente alla ricerca di collaborazioni strumentali all’ispirazione e al desiderio di voler creare qualcosa di nuovo. “Tutti noi abbiamo la musica dentro, tutti noi abbiamo un qualcosa che vorremmo esprimere, che ci porta a far uscire un qualcosa di incontrollato e di bello. Si tratta solo di cercare, ascoltando e lavorando, con passione e rispetto”.

L’artista coincide con la ricerca perpetua. Questo anelito condurrà Umberto a diventare leader, nel senso di creare una propria band, della quale diventerà il Direttore d’Orchestra. Nascono, per mano del demiurgo Gandhi, i Fearless Five, un quintetto di giovanissimi: Mirko Cisilino alla tromba, Filippo Orefice al sassofono, Alessandro Turchet al contrabbasso e Paolo Corsini alle tastiere, tutti rigorosamente under 30, dotati di enorme talento, cui il maestro fornisce l’esperienza e l’imprinting.

Siamo giunti così al termine di questa sezione testuale del libro ed è il momento giusto, da parte dell’autore, di chiudere con un suo personale pensiero sull’analogia tra la poesia e la musica, entrambi collocate nelle parti alte dell’intelletto, che aprono all’uomo la possibilità di differenziarsi dal resto del creato. La poesia va cercata per farne energia che trasforma la nostra natura, insegnandoci ad ascoltare. La posizione umile in ascolto della creazione musicale ci spiritualizza e ci rende liberi d’opinione. Siamo al cospetto di un pensiero preparatorio al tributo, che esplode grandioso e riverente: “Persone come U.T. Gandhi ci ricordano che possiamo essere liberi”. Ma si arricchisce con una citazione di Paul Valery, che è una delle chiavi di lettura di questo lavoro, oltre che del personaggio protagonista,” Un uomo invecchia soltanto quando smette di crescere”.

Il libro continua con un ricordo, sotto forma di racconto, di Fabio Turchini, che descrive la sua esperienza con U.T. Gandhi nel contesto della tenuta di un seminario musicale a Riva del Garda, di carattere addestrativo/sperimentale. Leggendo, diventa emblematico e sorprendente accorgersi di come anche un intellettuale come Turchini si flette al cospetto della personalità di Umberto, rigorosa, carismatica, vibrante, originale. Il brano, colmo di descrizioni animistiche del paesaggio e delle atmosfere, così preciso nel cogliere le sfumature anche dei gesti più semplici dell’uomo, è una delizia emozionante.

In calce al volume potrete leggere alcune pagine in cui sono riportate la discografia, le collaborazioni, le performance come ospite, le collaborazioni orchestrali, con il teatro, la danza e i workshop. La lista è infinita. Procurarsi anche una singola opera per ogni artista citato consentirebbe la composizione di una discografia di livello assoluto.

Questo esaurisce la parte strettamente letteraria del lavoro. Perché quest’opera può a ragione essere fruita anche con altri mezzi, di uguale dignità artistica. Il secondo è la fotografia. Intramezzato alle pagine, si innesta l’esposizione di un ricchissimo album fotografico, rigorosamente in bianco e nero, composto da Luca D’Agostino, con allegate didascalie, che scorre di pari passo al testo. Direi, altresì, che potrebbe sostituirlo il testo, atteso che ogni scatto, oltre a fissare su pellicola tutti gli avvenimenti musicali raccontati, ne offre una versione impreziosita dalle pose, dalla fisicità e dalle espressioni di U.T. Gandhi nei momenti che ne hanno scandito la crescita e la realizzazione, dalle braccia dei genitori, fino al fumetto che il grande Altan gli ha dedicato.

Non è finita. L’epica gandhiana vive attraverso un terzo livello di fruizione, quello che amiamo di più: la musica registrata. In fondo al volume, a tal uopo, è opportunamente allegato un CD della durata di ben 78 minuti, per 15 tracce di musica purissima, intitolato My Soul Is Inside This Music, registrato negli studi Artesuono di Stefano Amerio per l’etichetta Mahatmamusic. Mai titolo potrebbe essere più rappresentativo. Si parla di anima e di musica, due punti cardine ampiamente teorizzati nel testo scritto, dei quali, nel caso di U.T., non è facile stabilire i confini e gli intrecci. La filosofia del linguaggio utilizzato per costruire il racconto, pieno di ritmi, esitazioni e silenzi emulanti una batteria virtuale, si converte in filosofia del linguaggio musicale, che attraverso il lessico sonoro, crea a sua volta una forma di comunicazione molto vicina alla parola, narrante con la mediazione degli strumenti. Così come accade per l’album fotografico, anche il disco, preso da solo, costituisce un esempio brillante di semiologia della musica. Racconta la storia/diario di Gandhi attraverso i suoni e la loro composizione. La sequenza musicale potrebbe aderire perfettamente alla progressione della narrazione. Ogni colpo di tom, di rullante o di piatto scandisce un momento della sua esistenza, con tutti i ricordi e le emozioni che le sono legati. Ecco allora Saham, il boato devastante, poco più di un minuto, tanto basta a un terremoto per distruggere. Il gioco dei timpani drammatizza ancor più l’evento, misto alle percussioni “rotolanti” come a riprodurre rovine che si ammassano al suolo. Il tema è ripreso nella traccia Lost People of ’76 che vuole far sapere al mondo che, al contrario del titolo, le genti del 1976 non sono perdute. Sono solo molto confuse, la prova è violenta. I suoni sono disarmonici, prendono direzioni irregolari, si cercano, sfiorandosi, senza riuscire veramente a prendersi per mano. Il piano disegna armonie di richiamo, la tromba, lancinante, cerca di rispondere, ma l’eco dei tuoni della terra, fatto di percussioni insinuanti è ancora permanente come una coltre. Ma ecco la salvezza, la vita. Thanks Joe, dove Joe è ovviamente il maestro Zawinul. Gandhi lo tributa inventando un pezzo che sprizza Weather Report da tutti i pori. Ipnotico, poliritmico, con temi tastieristici geniali e futuristi. Azaha Bar è esattamente la musica che ognuno potrebbe immaginare attraversando i luoghi aridi maghrebini, con una miriade di sonorità dalla timbrica tradizionale, tablas, oud, piccole percussioni che sembrano ossa che risuonano, ma ancora tastiere a tenere il contatto con l’occidente. Con Testament Gandhi si cimenta con la composizione orchestrale, lirica e commovente. Riesce comunque a innescare la sue zampate percussive anche in un contesto che è armonico puro. Lo definirei molto cinematico. Segue Vertical Invaders, miscela di suoni che sembrano prodotti da astronavi extraterrestri che volano su una trama di note basse fittissime. In lontananza si odono sirene di ambulanze o polizia, gli strappi di tastiere elettroniche terrorizzano creando caos. Alla fine un crash di vetri in frantumi avverte che c’è stato uno schianto. Gli invasori hanno toccato terra. Tony’s Lament si dipana su un tema di chitarra e basso molto riflessivi e quieti, con i piatti accarezzati e pelli appena percosse. Una tromba umorale, dai sapori noir, implora che il proprio lamento possa essere ascoltato. Baldasar viene ad annunciarci che l’anima di Zawinul è ricomparsa. I cori accompagnati dal battito di mani ritmato in stile gospel sono di uomini in adorazione. I tamburi di U.T. non si fanno cogliere impreparati. Simonetta’s Song è una ballata pianistica su un sottofondo di onde del mare. L’atmosfera è di quelle a cui non si può resistere. Una forza sconosciuta, ma amica e una tromba in lontananza, stimolano a lasciarsi andare, ad abbracciarsi danzando lentamente, avvolti nell’oblio dei sensi. Da godere appieno, perché l’alba, preceduta dal verso dei gabbiani, sta sorgendo. Aziz ci riporta in un misterioso clima di foggia arabescante, con tastiere di fondo, voci gutturali e oud che ritaglia melodie mediorientali. Poi timpani e conchiglie metronomici fanno salire l’intensità che sfuma all’improvviso. Con Tema di Giulietta entriamo nella composizione teatrale. Splendida la voce femminile che veleggia aggraziata tra gli strumenti. Funerale Siciliano riprende lo stile cinematico. Una classica marcia funebre, che però non ha nulla di drammatico. La tuba è quasi caricaturale e i flauti cinguettano ilari. Sudamerio rappresenta un gioco di parole, la fusione tra Sudamerica e Amerio, ossia Stefano, patron dell’etichetta Artesuono e dell’omonimo Studio dove, tra i tanti, anche Gandhi ha prodotto i suoi lavori. Questa volta il protagonista è il sax, che interpreta la sud-americanità con molta leggerezza. Anche Mahatma è un’espressione targata Artesuono, essendone una label. Non so se è un’imitazione o un autentico dijeridoo che tiene la trama. Nel primo caso sarebbe riuscita benissimo. La sequenza delle tracce termina, non poteva essere altrimenti, con Tema di Giulietta e Romeo, ovvero l’amore, pretesto per lasciare lo spazio del commiato alla tromba di Enrico Rava. Niente da dire, lirismo allo stato puro.

Con l’ascolto del CD ho esaurito una delle esperienze più forti che mi sia capitato di vivere negli ultimi tempi. La scrittura e la narrazione, vitali, originali, frementi. La visione, con quelle fotografie in bianco e nero, così confidenziali che sembrano un album di famiglia. Per finire con la musica. Passionale, profondamente vissuta, espressiva, monumentale e agile allo stesso tempo. Su tutto l’intelletto, il corpo, la spiritualità, il genio di U.T. Gandhi e, soprattutto le sue braccia e le sue magiche mani. Umberto, con applicazione, volontà e, checché ne dica il nostro, una buona dose di talento, è riuscito a dare del tu all’arte. Ma che ci vogliamo fare… è solo un autodidatta!

 

 

PAROLA DI DIRETTORE | SUPPLEMENTO D'INDAGINE

Ho la fortuna di conoscere Umberto da qualche anno. Adesso che la vita mi ha riservato l’ennesimo spostamento geografico questa volta in terra friulana, ho la fortuna di poter scambiare qualche parola con lui sorseggiando un tajut di splendido vino bianco che viene prodotto da queste parti. Ho anche avuto la fortuna di incontrare Giuseppe Trotto che ha abbracciato l’avventura ReMusic diventando in breve tempo uno dei nostri collaboratori di punta. Ebbene, il tema del mio intervento è l’umiltà.

L’umiltà di U.T. Gandhi, artista di spessore assoluto che non si è fatto travolgere dal successo ma ha continuato a dare valore alle cose importanti della vita, a dare sostanza alla musica rispettandola e rispettando se stesso e chi gli stava vicino. L’umiltà ti permette di non essere una meteora che brilla intensa e breve così come vuole la superficiale morsa del mercato, ma di essere un caldo fuoco che avvicina tra loro gli uomini che vogliono parlarsi, che vogliono fare musica insieme, che vogliono invecchiare vivendo una vita vera e profondamente intensa. Un tipo di umiltà che lo porta a circondarsi di amici e artisti come il chitarrista Armando Corsi, così che li puoi incontrare sorprendentemente in piccoli locali mentre danno vita a sublimi performance.

L’umiltà di Giuseppe che ha scritto questo meraviglioso articolo dove traspare in modo evidente l’amore per la musica e per le relazioni umane.

L’umiltà, permettetemi di dirlo, di ReMusic che coglie e raccoglie le cose belle della musica e del miglior modo di riprodurla facendo un lavoro curato, amorevole e attento senza badare che i nomi siano altisonanti o blasonati.

Mi piace l’umiltà, ti offre il tempo di essere consapevole di te stesso e di apprezzare gli altri quando lo meritano.

 

R.R.

 

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