Venezia, la musica e i microfoni

29.09.2011

La musica, praticamente da sempre è una delle mie passioni. L’altra è l’immagine, sia fotografica che in movimento.
Recentemente, durante le riprese di un documentario proprio su Venezia e la musica, un percorso appunto nel rapporto tra questa e la città nel corso dei secoli, mi è capitato un caso di registrazione audio decisamente particolare. In pratica, nel documentario, oltre a interviste a musicisti e personaggi vari, immagini di luoghi, ecc., si sono create diverse occasioni di registrazione, sia audio che video, di concerti di musica, in maggior parte classica, delle varie epoche dal ‘300 fino ai giorni nostri.
Beh, per la categoria “ai giorni nostri”, uno dei concerti ripresi è stato quello del 9 luglio 2011, un concerto per laptop (oh, yes!) al Conservatorio B. Marcello di Venezia, nell’ambito di un’importante manifestazione internazionale di musica e computer, la Sound and Music Computing 2011.
L’esperienza devo dire è stata interessante sotto molti punti di vista, sia musicali sia tecnici, difatti l’ascolto dei brani mi ha incuriosito e ho trovato particolare la situazione di ripresa audio.
La sala da concerto del Conservatorio di Venezia è una bella e antica sala, di medie dimensioni, con una buona acustica, riverberi presenti, ma non dominanti e una discreta limpidezza del suono diretto. Diciamo che si registra bene un concerto di strumenti acustici in varie formazioni, si tratta solo di valutare, caso per caso, quali siano le scelte migliori di tipologie di ripresa, microfoni, ecc.
Per chiarezza, tengo a precisare d’essere un accanito sostenitore della ripresa stereofonica pura, ovvero fatta utilizzando due soli microfoni o meglio due soli canali audio, trovandone la migliore tipologia (A B, X Y, ORTF, Blumlein, M+S, Decca Three e così via) e scegliendo accuratamente i microfoni da utilizzare di volta in volta, a seconda delle condizioni di registrazione.
Solo in casi eccezionali mi è capitato di dover utilizzare un microfono aggiuntivo o due, per dare una maggiore intelligibilità a strumenti che, per le condizioni in cui si trovavano, non riuscivano a esprimersi al meglio. Ma, ripeto, sono casi in cui realmente non vi è altra soluzione possibile. Difatti spesso la cura innesca una serie di effetti collaterali, leggi alterazioni e rotazione della fase di ripresa e così via, che disturbano parecchio la buona riuscita dell’operazione.
Tornando all’argomento dell’articolo e più precisamente alla sala da concerto, arrivato sul posto la mattina dell’evento per vedere l’allestimento, guardandomi intorno noto che tutto il perimetro della sala è costellato di casse acustiche. A qualche metro l’una dall’altra i tre quarti della sala sono acusticamente attivi, è evidente che l’intenzione è quella di far arrivare i suoni all’ascoltatore un po’ da tutte le parti.
Il palco invece è organizzato con i vari laptop, sette o otto, a semicerchio e ognuno ha la sua bella cassa amplificata a corredo, il tutto poi gestito da un mixer digitale con operatore a centro sala.
A questo punto, la scelta della configurazione di ripresa microfonica si fa ardua: che fare?
Pensare a un 5+1 per la gioia degli amanti degli effetti speciali non esiste proprio, voglio assolutissimamente usare una configurazione stereo pura. D’altro canto, un conto è registrare in una sala in cui gli strumenti sono sul palco e la loro emissione principale viene da lì, un altro è confrontarsi con questa corona di casse, oltretutto non conoscendo bene come saranno poi gestite.
Eh già, perché una volta fatta la scelta del sistema di ripresa di un evento, poi quella resta, non si può certo cambiare idea in corso d’opera.
D’altro canto un evento è tale per la sua unicità, una volta che si è fatta la frittata è difficile trasformarla in branzino al forno con patate!
Un punto importante nella scelta della configurazione di ripresa, secondo me, è quello di dare all’ascolto finale l’impressione di essere presenti all’evento, o quantomeno avvicinarsi a questo concetto. Tutto ciò ovviamente ha senso appunto nella riproduzione di un concerto dal vivo, mentre le registrazioni in studio sono un altro paio di maniche.
Personalmente amo molto i microfoni omnidirezionali, per la naturalezza con cui riproducono anche le relazioni reciproche nello spazio delle varie sorgenti sonore: non fanno preferenze! I cardioidi, al contrario, accentuano ciò che si riceve anteriormente, tendendo man mano a escludere i suoni provenienti dai lati e dal retro. Sono indispensabili per certe riprese, ma in questo caso, vista la provenienza dei suoni, non erano gli attrezzi più adatti a ciò che avevo in mente.
Scegliendo la caratteristica polare dei microfoni si definiscono anche più chiaramente le configurazioni da adottare e, per le considerazioni espresse prima, la cosa migliore mi è sembrata un bel AB con i microfoni posizionati tra il palco e gli ascoltatori a circa tre metri uno dall’altro e a un metro e sessanta di altezza da terra, per escludere il più possibile le riflessioni del pavimento, senza apparire troppo presenti nelle immagini filmate.
Questa opzione infatti mi consente di riprendere i suoni provenienti da ogni lato con la naturale differenza di emissione dovuta alla distanza dal punto di ascolto. Proprio come se al posto dei microfoni ci fossero le orecchie di un ascoltatore. Ehm… orecchie distanti tre metri l’una dall’altra, ma questa è una piccola licenza poetica.
Per i microfoni ho optato per una coppia di Beyerdynamic MCD-101 con il relativo alimentatore MPD-200. Si tratta di microfoni di qualche anno fa, omnidirezionali a grande membrana e digitali, ovvero il preamplificatore microfonico e il convertitore analogico digitale sono all’interno della cassa del microfono. Questo consente di avere in uscita un segnale digitale su cavo bilanciato in standard AES EBU, che nelle intenzioni della casa costruttrice è molto meno sensibile alle interferenze, alla lunghezza dei cavi, ecc.
In effetti, il sistema funziona molto bene, innanzi tutto per la qualità dei microfoni e dell’elettronica utilizzata e, in parte, anche per la eccellente pulizia del segnale, che dipende molto dalla scelta di inserire i convertitori nei microfoni.
Il limite di questo sistema è che invecchia con la stessa rapidità con cui invecchia la tecnologia digitale, i convertitori sono a 24 bit 48 Khz, che all’epoca della loro uscita sul mercato erano il massimo, oggi sono, almeno sulla carta, ampiamente superati.
Però… all’ascolto le cose non funzionano proprio così, ovvero se un suono è di altissima qualità oggi, non è che domani sia lassativo, in effetti la qualità della ripresa che si ottiene con questi Beyer è realmente elevatissima, inoltre la registrazione mi serve per un documentario: lo standard audio più utilizzato in cinematografia è di 24 bit 48 Khz, ma guarda! Infine i pregi superavano i difetti e mi consentivano di risparmiarmi una più complicata valutazione di accoppiate microfono-preamplificatore.
In conclusione, il risultato è stato molto valido, con una notevole naturalezza sonica, anche se la ripresa era di musica elettronica riprodotta da casse amplificate, la sensazione di presenza in loco è notevole, la spazialità pure, la fatica di ascolto praticamente inesistente. Ehm, tranne quella dovuta al genere musicale a volte un po’ impegnativo, ma questa è un’altra storia.

di Claudio
Piovesana
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